lunedì 26 agosto 2013

Tre leggende sulla montagna

Lavorando sulla montagna, con i bambini abbiamo, sia là che una volta tornati a casa, letto anche tante leggende. 
Tra tutte, sono tre quelle che ci hanno colpiti ed affascinati di più.
La leggenda del Rosengarden,per l'atmosfera un po' fatata ed i suoi personaggi, in particolare re Laurino e la bella principessa Similde;
La principessa di neve, per la dolce malinconia di una storia triste ma delicata;
Il gigante Sassolungo, che racconto ai bimbi da sempre, così come mia madre faceva con me e mio fratello da piccoli, essendo particolarmente legati a quelle zone delle Dolomiti (Val Gardena e dintorni) e recandoci quasi sempre là, in vacanza.
 Le leggende, con i loro personaggi fantastici, le loro storie immaginarie, ma con quell'elemento di aggancio alla realtà, sono sempre coinvolgenti per i bambini ed aiutano lo sviluppo della fantasia e l'osservazione attenta e curiosa del mondo attorno a noi.


La Leggenda del Rosengarden
Un tempo, dove ora vediamo il Catinaccio, c’era il regno di Laurino, il re dei Nani. Viveva in un palazzo sotterraneo di trasparente cristallo di rocca, con il suo favoloso tesoro, mentre i Nani scavavano la montagna in cerca di gemme e pietre preziose, oro e argento.
Davanti all’ingresso del palazzo, Re Laurino aveva creato un meraviglioso giardino pieno di rose dai petali di porpora e dal profumo intenso. Il palazzo era invisibile, nascosto dentro la montagna, ma il giardino poteva essere ammirato da tutti.
La bellissima Principessa Similde, figlia del re della Val d’Adige, era in età da marito e Laurino decise che sarebbe diventata sua sposa. Ma come avrebbe potuto vincere in torneo i valorosi giganti che come lui aspiravano alla mano della principessa?
Re Laurino era piccolo, è vero, ma possedeva due armi segrete: una cintura magica, che gli dava la forza di dodici Giganti, e un mantello fatato che lo rendeva invisibile.
Per sette lunghi giorni, i giganti sudarono nelle loro armature di ferro per avere in sposa la principessa e alla fine della contesa… Similde scomparve!
Immaginate la sorpresa di suo padre e di di tutti i pretendenti, che si chiedevano: “Dove sarà finita la bellissima Similde?”.
Qualcuno doveva averla rapita e quel qualcuno non poteva essere che Laurino, il re dei Nani!
I pretendenti, infuriati, galopparono su e giù perle montagne finchè trovarono il Rosengarden, il magnifico roseto di Laurino, ma nessuno di loro ebbe il coraggio di spezzare il sottile filo di seta che lo recingeva.
Solo il gigante Wittich osò tagliare il filo e calpestare i fiori meravigliosi.
Quel gesto scatenò l’ira di Re Laurino, che uscì dalla montagna gridando: “Ti taglierò la mano sinistra e il piede destro, secondo la legge che io stesso ho stabilito!”.
Grazie alla sua cintura magica, che gli dava la forza di dodici giganti, Laurino stava per per avere la meglio sul gigante, ma un altro forte cavaliere, Dietrich di Berna, entrò nella mischia pre difendere Wittich. Avvolgendosi nel mantello fatato che lo rendeva invisibile, Laurino stava per vincere il combattimento, ma Dietrich, osservando i movimenti dell’erba, capì dove si trovava il re dei Nani; così, con un balzo lo fece cadere da cavallo, gli strappò il mantello e gli sfilò la cintura.
Il povero Laurino, senza mantello e senza cintura,  fu fatto prigioniero.
I Nani piangevano disperati.
Ma la bellissima Principessa Similde intervenne dicendo: “Smettetela di combattere. Laurino mi ha trattata come una regina, offriamogli la nosra amicizia e concludiamo questa storia con un patto di pace”.
“Sì, festeggiamo la pace, amici, e seguitemi nel palazzo! Prego, entrate, e vi mostrerò il mio prezioso tesoro!” propose Laurino.
Il famoso tesoro del re dei Nani! Tutti ne avevano sentito parlare, ma nessuno lo aveva mai visto. Così, spinti dalla curiosità, i Giganti entrarono nel palazzo e restarono affascinati da quel tesoro di grandissimo valore.
La vicenda sembrava essersi conclusa felicemente, ma dopo aver servito ai Giganti piatti prelibati e bevande raffinate, i Nani li assalirono e li incatenarono in una grotta buia e profonda. L’ira del cavaliere Dietrich fu però così grande, che egli spezzò le catene e liberò se stesso e i suoi amici.
Poi fecero prigioniero laurino, che non aveva onorato il patto di pace e di amicizia.
“Tutta colpa del Rosengarden, il mio bellissimo roseto!” pensava tristemente il re dei Nani.  “Se i Giganti non lo avessero visto, non avrebbero mai scoperto le mie montagne e il mio regno!” e pronunciò un incantesimo che avrebbe reso per sempre le rose invisibili sia di giorno che di notte. Dimenticò però il tramonto, e da allora accade che all’alba e al tramonto il Catinaccio si tinga di un magnifico color rosa.
Al tramonto,  in quei pochi istanti in cui il giorno muore per lasciare posto alla notte,  ma il buio non è ancora sopraggiunto, il Catinaccio si accende di rosa, a volte di rosso e il colore delle rose riaccende la montagna, a ricordo dell’infelice storia di Re Laurino e del suo meraviglioso giardino”.



La Principessa di neve
 C'era una volta una principessa di neve.
L'avevano tanto desiderata a corte, una principessa!
"Un reame senza principesse è come un giardino senza rose" dicevano i sudditi, ed erano tristi e triste era il re e più triste era la regina.

La regina anzi sospirava sempre e per non addolorare il re coi suoi sospiri, usciva a sospirare e a piangere sul torrione del castello.

Il castello s'innalzava sopra un poggio; di fronte al poggio si ergeva la Marmolada e sulla Marmolada il palazzo di ghiaccio della regina delle nevi.

Questa regina, benché avesse il cuore di gelo, un po' si commosse e un po' si seccò di quei sospiri e un giorno, affacciatasi al balcone si sporse, guardò in giù e chiese: “Chi piange nella valle?”.
“Io, la tua vicina Chiomadoro” rispose “la regina del reame senza principesse”.
“La regina?”
“Proprio lei”.
“E perché?”
“Perché sono infelice”.
La regina delle nevi spalancò gli occhi e la bocca. “Tu? e come mai? Sei regina, sei bella, sei giovane, tuo marito ti ama e ti ama il tuo popolo, e se non erro hai anche un principotto”.
“È vero” sospirò la regina Chiomadoro “il principotto ce l'ho e bello e buono e virtuoso, ma i principotti appartengono prima ai sudditi, poi al re e da ultimo, ma poco poco, a mamma regina. Il principotto studia da mattina a sera per diventare un saggio sovrano, e nelle ore in cui gli altri bimbi si divertono e vanno a passeggio con la mamma, egli tira di scherma e monta a cavallo per diventare un robusto sovrano, e io lo vedo così di rado che invidio tutti i bimbi senza corona e le mamme di quei bimbi”.
“E così?” chiese la regina delle nevi. “E così vorrei avere una principessa....” La regina delle nevi sorrise.
“Ho capito, per avertela sempre alle sottane. Hai ragione anche tu”.
Accennatole di aspettare, rientrò un momento nel suo palazzo e, quando si affacciò, lasciò cadere nel giardino della reggia di fronte una culla rosa con dentro una principessina di neve.
Una principessina di tal fatta non è la principessa più desiderabile, ma la regina delle nevi dava ciò che aveva e l'altra regina fu contenta ugualmente. Tutto il regno fu contento; anche il re, anche il principotto.
Ma presto cominciarono i guai.
Quella principessina non poteva vivere che all'ombra, perché il sole l'avrebbe liquefatta, ma quando lo si conosce, si può forse rinunciare al sole?
Allora il sovrano, d'accordo coi suoi sudditi, decretò che dal suo regno fosse abolito il sole perché la principessina Ombretta, non conoscendolo, non avesse mai a desiderarlo.
Così fu. Nel regno di quel re si capovolse il corso della vita; di giorno si dormì e di notte si vegliò. All'inizio tutto parve facile e nessuno trovò così grave il sacrificio di far giorno della notte e notte del giorno; amavano tanto la loro principessa che avrebbero dato la vita per lei.
Poi a poco a poco l'esistenza divenne insopportabile.
Tutti i lavori si arenarono, il popolo si infiacchì, e nella reggia e nel regno entrarono la miseria e la malinconia.
Poco a poco si sentì gravemente quale errore fosse stato quel capovolgimento di abitudini, ma nessuno volle confessarlo per non recare danno alla piccola principessa di neve.
La principessa intanto era cresciuta ed era una pallida graziosa creatura tutta piena di amore e di bontà e si inquietava vedendo il mutamento che ogni giorno si compiva intorno a lei. Visi sempre più smorti, persone sempre più sparute, nessuna risata né un sorriso neppure sulle bocche dei bambini che ridono tanto facilmente.
"Certo", pensò la fanciulla "qualche terribile dolore angoscia la mia famiglia e il mio popolo, e non mi mettono a parte del loro segreto perché mi amano troppo e non vogliono che io soffra. Ma io soffro ugualmente vedendo soffrire quelli che amo".
E andò dalla regina e le chiese la causa della tristezza generale. La regina sorrise carezzandola sui bei capelli biondi.
"Nessuno è triste, figliuola; io sono felicissima e il popolo è felice".
Ombretta andò dal re, gli si inginocchiò dinanzi e gli ripeté la domanda, e il re si grattò la barba e si soffiò il naso e rispose: “Figliuola, l'infelicità nel mio regno non esiste, perché ci sei tu che sei la nostra gioia”.
Allora interrogò il principotto Ricciobruno e il principotto Ricciobruno scoppiò a piangere ed evitò di risponderle.
La principessina Ombretta restò sgomenta a guardare la porta da cui il fratello era sparito piangendo, e si disse: "Certo, la causa di tutta questa tristezza è Ricciobruno. O ha commesso qualche scappatella o è molto malato, o è molto in felice".
E poiché si convinse che alla reggia nessuno le avrebbe mai svelato il perché della malinconia che tormentava tutti, pensò di andare a interrogare una donna sapiente che abitava nei boschi, e a cui ricorrevano le sue piccole amiche quando volevano conoscere un segreto.
La donna sapiente sapeva tutto e non ingannava nessuno. Ci andò.
Per uscire inosservata dalla reggia si travestì da contadina, così quando bussò alla porta della donna sapiente e le sedette dinanzi, questa che era molto miope non la riconobbe.
“Buongiorno, buongiorno” le disse “in che posso servirti?”.
“Ah davvero se tu mi dicessi perché il principotto Ricciobruno e tutti con lui sono tanto infelici, mi renderesti un gran servigio”.
“Perché? gli vuoi bene?”
“Al principe? certo e anche agli altri”.
"Che buona figliola! mi duole per te, ma il principotto e gli altri con lui sono destinati a morire".
La principessa sobbalzò: “ A morire?”.
“Eh, figliuola mia, chi vive senza il sole?”.
 “Il sole? “ che cos'è il sole?”.
“È vero è vero, tu non puoi conoscerlo, perché sei tanto giovane, e da quando è nata la principessina Ombretta, pena la morte, non si può neppure farne parola, ma il sole è la ragione e la vita del mondo; il sole fa germogliare e fa vivere”.
“O bella! e il sole si è forse offeso per la nascita di questa principessa ed ha abbandonato il nostro regno?”.
“Figliuola, come sei ignorante! il sole è troppo generoso per privare gli uomini della sua luce e del suo splendore; ogni giorno si leva e tutti gli uomini si alzano con lui, tranne quelli del nostro regno che hanno avuto la sfortuna di avere una principessina di neve”.
A Ombretta scesero due lacrime lungo le gote, ma la donna sapiente non se ne accorse perché era molto miope e proseguì, mettendosi gli occhiali: “Il sole scioglie la neve e mentre dà la vita a tutti noi, a questa malaugurata principessa darebbe la morte, sì che il nostro re e i suoi sudditi hanno capovolto le abitudini del mondo e preferiscono morire piuttosto che sacrificare l'esistenza della principessina....”.
Mentre diceva così la povera Ombretta era scoppiata in singhiozzi ed era uscita dalla capanna, decisa a morire piuttosto che ritornare alla reggia dove tutti agonizzavano per lei, e la donna sapiente restò con la bocca aperta, presa dal terribile dubbio di aver parlato alla principessa in persona.
Allora prese il suo bastone e, incespicando ad ogni passo perché era anche molto vecchia, uscì dalla sua casuccia e si diede a inseguirla e a chiamarla perché tornasse indietro. “Principessa, principessa, perdonami, ho scherzato, ho mentito, ho voluto farti una burla, ti ho raccontato una frottola. Torna a casa tua perché il sole sta per sorgere e ti potrà far male”.
“Dunque vedi che non hai raccontato una frottola se temi che il sole mi sciolga, povera donna sapiente!” rispose la principessina Ombretta, piangendo e correndo per non essere raggiunta.
E piangi piangi, corri corri, fu raggiunta dall'aurora vestita di rosa, e l'aurora riconosciutala dalla corona di gemme che recava sul capo, si fermò e le disse: “Oh, principessa Ombretta, il sole sta per uscire dal suo castello e ti scioglierà, povera principessina di neve; torna in fretta alla reggia dove ti stanno cercando disperatamente”.
Piange il re, piange la regina e piangono i sudditi e il principe.
Allora la principessa Ombretta cessò di piangere e rispose: “Meglio che essi piangano la mia morte piuttosto che io viva col rimorso di averli uccisi tutti”.
E proseguì a camminare, rasserenata dal pensiero che il suo sacrificio non sarebbe riuscito inutile, perché sparita lei, spariva dalla reggia ogni ragione di escludervi il sole.
Camminò fino a che vide il sole fare capolino all'oriente; allora si fermò abbagliata da tanta grandezza e da tanta meraviglia e capì come nel suo regno i suoi sudditi morivano per il dolore di averlo perduto.
Il sole dolente di distruggere una creatura così bella afferrò a volo una nube e se ne coprì gridando alla fanciulla di neve: “Principessa Ombretta, chi ti ha lasciato uscire a quest'ora? Nasconditi in fretta perché ti sciolgo e mi dispiace toglierti la vita”.
La principessina sorrise: “E che importa se la spendo per il bene dei miei?”.
Allora il sole, commosso da tanta bontà, allungò un raggio fino a lei e se la trasse accanto al suo cocchio d'oro, dicendole: “La tua generosità ti ha salvata, principessa, perché la bontà non muore mai e tu regnerai con me sul mondo”.
Questo alla corte della principessina non si seppe. Si seppe dalla donna sapiente che ella aveva sacrificato la sua vita per amore dei suoi, e il luogo dove si credette che la piccola dolce principessa avesse lasciato la sua vita mortale fu intitolato al suo nome. Ancora oggi Passo Ombretta si chiama il bel valico alpino che da Canazei, in Val di Fassa, conduce a Contrin.
Margherita

Mariangela



Il Gigante Sassolungo
Abitava una volta in Val di Fassa una famiglia di giganti; ma che dico una famiglia? una tribù, e anzi questa tribù aveva occupato per intero la valle, e in quei campi non si vedevano che figure lunghe lunghe come campanili.
All'infuori della statura essi non avevano nulla di diverso dagli uomini e come gli uomini avevano volto e gambe e braccia e capelli.
Ma che volto! e che gambe! e che braccia! E i capelli? Immaginateli a fiumi, a cascate.
Per vestirli ce ne voleva di stoffa, ma essi non erano vanitosi quanto noi, e si contentavano di indumenti semplici e di piccolo costo.
Buoni, del resto; non avrebbero nuociuto a una mosca, e sì che le mosche sono noiose e a distruggerle ci si guadagna. Ma essi no, le lasciavano vivere.
Vi dirò che erano di pelle tanto dura che le mosche non se le sentivano zampettare sul naso, beati loro! e le notti d'estate dormivano ugualmente anche se legioni di zanzare venivano a molestarli.
Dalla loro valle quei buoni giganti non uscivano mai per non sconvolgere la vita dei pastori abitanti le valli vicine.


Con un calcio avrebbero potuto buttare all'aria una casa, oppure calpestarla come un ciottolo, perché ci vedevano poco, e quei poveri pastori come sarebbero rimasti dinanzi a tale scortesia? I pastori però venivano a trovarli e a vendere loro derrate di patate e di cacio che ognuno di essi si mangiava in un amen, ricambiandole con altrettanto oro che trovavano nel fiume. Il fiume a quel tempo ne era pieno, ed essi non duravano fatica a cercarlo, bastava ci avessero tuffato una mano; e neppure facevano gran caso di quella ricchezza.


Viveva tra loroi un gigante che si chiamava Sassolungo, Dio solo sa perché.
Lungo lo era, ma se di sasso non lo so.
Questo gigante, bimbi miei, era un tipo tale che avrebbe fatto la disperazione di tutto un popolo.
Gentile d'aspetto, tutto moine e umiltà, lo si sarebbe detto l'uomo più pacifico e più onesto del creato, ma chi può credere all'aspetto? Quel birbaccione di Sassolungo era un ladro e un bugiardo di prim'ordine.
Così gli piaceva rubare e mentire, mentire e rubare.
Sua madre, che sola tra tutti conosceva che bel tomo fosse suo figlio, ne era morta di dolore, ma le madri, si sa, sono sempre pronte a nascondere i difetti dei figliuoli, ed era morta senza confessare a nessuno il perché della sua morte. E il figlio aveva versato tante lacrime seguendo la sua bara, che tutti ne avevano avuto pietà e lo citavano come modello di virtù.


Eppure da che egli era cresciuto, in paese i malanni e le ruberie si seguivano vertiginosamente.
Pollai spazzati, denari rubati, raccolti rovinati. Ma chi ci pensava che fosse Sassolungo? Quei bravi giganti si assoggettavano a sorvegliare la notte i loro tesori, vegliando per turno, e vegliavano fino a che gli occhi non si chiudevano. Bastava che li avessero chiusi un momento che il malanno era fatto.
Quel ladro doveva essere di una sveltezza prodigiosa.
Allora delle ruberie nei pollai si incolparono la volpe e la faina, chi altri poteva essere? oppure il falco; di notte piombava giù e faceva strage. Oppure tutti insieme messisi d'accordo per nuocere alla gente. E dei raccolti rovinati furono incolpati il tasso e la talpa e la tempesta.
E dell'oro sottratto incolparono la gazza; è tanto ladra e astuta monna gazza! E del grano asportato incolparono i sorci; sono tanto golosi quei sorci! Di qualcuno dei loro non dubitavano affatto, perché da quando essi esistevano nessuna ruberia mai era avvenuta. E Sassolungo era il primo a gridare:
- Morte alla volpe, morte alla faina, morte al falco, al tasso, alla talpa, alla tempesta, ai sorci, alla gazza. 
Un birbaccione vi dico.



Volpe, faina, tasso, talpa, falco, gazza e sorci, tutta la genìa delle bestiole, incolpate a torto, si sentirono offese nell'onore, di essere accusate
ingiustamente e si adunarono in assemblea.
Disse la volpe: “Io rubo, sì, nei pollai, ma tutt'al più mi pappo un pollo o una gallina, e ciò avviene anche di rado perché gli uomini sorvegliano i loro polli e ho paura delle trappole. Ai giganti poi non ho rubato mai perché con due passi mi raggiungerebbero e con un piede mi schiaccerebbero. Non lotto mai con i più forti di me”.
“Così io” disse la faina.
“E io pure” disse il falco.
Anche gli altri addussero presso a poco le medesime ragioni. “Bisogna dunque scoprire il vero colpevole per denunciarlo ai giganti” proseguì la volpe.
“E perché è giusto che l'innocenza venga riconosciuta e la colpa punita” aggiunse la faina.
“E perché i giganti continuino a volerci bene” conclusero i topi.
Gli altri naturalmente si trovavano sempre d'accordo e approvavano battendo le zampe.
Così decisero che volpe, gazza, tasso e faina avrebbero sorvegliato di giorno, e falco e talpa e sorci vegliato di notte. Naturalmente si avvidero presto che il ladro era Sassolungo e tanto più si indignarono quando lo udirono gridare:
“Morte alla volpe, morte alla faina, morte al falco, alla gazza e ai sorci!”.
E andarono di corsa all'assemblea dei giganti a denunciarlo.






Sassolungo arrossì , e si lanciò sopra quelle povere bestie con uno slancio tale che le poverine se la diedero a gambe. - Vedete? - disse Sassolungo con aria di trionfo - non hanno avuto il coraggio di sostenere l'accusa. Così l'innocenza trionfa della menzogna e della malvagità.
I giganti non dissero sì, non dissero no, ma intanto il sospetto era entrato nelle anime loro e lavorava.
“Possibile?” si chiedevano perplessi e anche addolorati perché l'uomo soffre di trovare il male annidato in colui che ha stimato buono fino a ieri - possibile che il birbante sia lui? con quel viso? con quegli occhi?”.
Possibilissimo, ma essi non ci credevano.
Tuttavia lo sorvegliarono e lo sorpresero proprio a rubare in un pollaio.
Figuratevi lo sgomento di quei poveri omaccioni!
Sassolungo, viso di piombo, incominciò a gridare che egli non aveva affatto l'intenzione di rubare; che anzi era entrato nel pollaio per sorprendere la volpe e la faina; che non rubava, che non aveva rubato mai, e i poveri giganti, intontiti più che convinti lo lasciarono libero.
“Può darsi che davvero sia entrato nel pollaio animato dall'intenzione di coglier la volpe e la faina, e scolparsi così dall'accusa che le comari gli hanno mosso” si dissero l'un l'altro, e tornarono a sorvegliare.
Lo colsero in un magazzino di grano intento a riempire sacchi.
“Ora non ci dirai che sei venuto a sorprendere i topi!” gli gridarono.
“Sono venuto a insaccare il grano, appunto per difenderlo da loro!” disse piangendo Sassolungo, e i poveri giganti si guardarono in faccia sbalorditi, e gli perdonarono ancora.
“Però” gli disse il capo “questa è l'ultima volta che prestiamo fede alle tue frottole: a custodire i nostri averi porremo uomini di nostra fiducia, e proibiamo a te di immischiarti nelle nostre faccende. La prima volta che ti cogliamo con le mani nel sacco la pagherai per tutte”.
Sassolungo di nuovo a protestare e a gridare che egli era innocente, che non rubava e che non aveva mai rubato.
I giganti, poverini, a grattarsi la barba e a chiedersi l'un l'altro: “Come si può mentire spudoratamente così?” e speravano che le lezioni avute correggessero infine Sassolungo.
Invece quando si nasce ladri è difficile cambiare se non c'entra la buona volontà, e Sassolungo di buona volontà non ne aveva, e trovava che era comodissimo vivere alle spalle altrui.



Il gigante suo vicino aveva piantato un melo che era una meraviglia: e ogni sera sedeva all'ombra di esso con la moglie, i bambini, 
e contava le mele dicendo: “Quante! e belle e rosse! ne faremo mele farcite, e frittelle, conserve, e ne avremo per tutto l'inverno. È buona cosa seminare con fatica, quando si può raccogliere cantando”.

Ma Sassolungo non pensava a queste belle e buone cose; pensava invece che quelle mele sarebbero state una vera leccornia per lui, cotte sotto la cenere e condite con lo zucchero,
Una notte, mentre tutti dormivano, si avviò verso il frutteto del vicino e, dato uno scossone alla pianta di mele, la spogliò. A scolparsi avrebbe pensato poi, incolpando la grandine, il vento, gli scoiattoli.
Il mattino, quando il proprietario della pianta di mele si alzò e vide quello scempio, gridò al ladro, e disperato corse dal capo dei giganti a denunciare il furto.
Il capo non ci pensò neppure un momento, e scosse la testa dicendo:
“E' quella birba di Sassolungo; non può essere che lui. - E mandò due giganti a prenderlo nel suo covo”.
Quello sciocco, non appena li vide giungere, incominciò a gridare:
“Se venite da me per il furto delle mele, vi sbagliate, perché io non ne so nulla, e non c'entro per nulla, e sono innocente come l'acqua”.
I due giganti scoppiarono a ridere dicendo:
“Anche i malvagi non sempre sono astuti, perché questa volta ti sei messo nel sacco da solo. Se tu fossi innocente non sapresti nulla del furto, perché ancora intorno non se ne è fatta parola”.
E presolo per un braccio, l'uno di qua, l'altro di là, lo condussero dal loro capo nella sala di udienza che si era frattanto riempita di tutta la folla dei giganti.
Il capo e la folla lo accolsero in silenzio ma con viso di minaccia.



“Questa volta la paghi per tutte, Sassolungo” disse il capo.
E Sassolungo a sbraitare e a ripetere le sciocche storie dello scoiattolo, del vento, della pioggia.
“No, no” disse il capo  “sei stato tu, è chiaro come il sole, e invece di confessare il tuo fallo, il che avrebbe potuto forse indurci a un po' di clemenza, lo aggravi incolpando gli innocenti. Ormai non sperare di ingannarci; soltanto ti preghiamo di una cosa, e questo a tuo vantaggio: se tu non mentirai avrai il castigo, sì, ma eviterai un castigo peggiore; pensaci bene, Sassolungo. Quante volte hai rubato in vita tua?”.
Sassolungo scoppiò in lagrime e rispose:
“Mai!”.
I giganti dinanzi a una sfrontatezza simile mormorarono: “Sassolungo, non mentire”.
“Mai!” ripeté Sassolungo.
Allora il capo fece un cenno e lo toccò con la sua bacchetta, e il gigante incominciò a sprofondare nel terreno che si apriva sotto di lui pronto a ingoiarlo.
Sassolungo ebbe un brivido ma rispose ancora:
“Mai!” Sprofondò fino alla cintola.
“Sassolungo, confessati.
“Mai” - ripeté egli cocciuto.


Sprofondò fino al mento.




- Sassolungo, ancora una menzogna e non potrai mentire mai più.

- Mai!

Anche la testa fu inghiottita.
Il capo dei giganti impietosito, volle tentare un'ultima volta per indurlo a confessare e chinatosi sopra la voragine dentro cui Sassolungo era sparito, gli gridò:- Sassolungo, se confessi posso ancora salvarti. Quante volte hai rubato nella tua vita?
Allora dalla voragine si alzò una mano immensa ad accennare ancora:
- Mai.
Quella mano con tutte le sue cinque dita aperte, è rimasta impietrata nella catena delle Dolomiti di Fassa, e si chiama appunto Sassolungo o Cinque dita.


Nota: foto tratte dal web. Le leggende della Principessa di neve e di Sassolungo (come pure i disegni su quest'ultima leggenda) sono tratte e parzialmente rielaborate da: Fiabe delle Dolomiti, ed. Giunti Kids

4 commenti:

  1. Ma che bravi!
    La leggenda di sassolungo è luuunghisssima......
    Bravi ai bambini per i loro disegni!
    Mariuccia

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    Risposte
    1. Sì, Mariuccia, è molto lunga. Ma, letta in due-tre sere, prima di dormire, ha un certo fascino! Soprattutto quando, poi, si può ammirare questo massiccio dal vivo!

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  2. Che piacere deve essere stato vedere i posti raccontati dalle fiabe tutto assume un fascino particolare.
    Come sempre prendo spunto in attesa della giusta occasione.Mamma Elly sei veramente molto fantasiosa e piena di risorse e' piu' di un anno che vi seguo e grazie al vostro esempio anche noi quest'anno ci avventuriamo con l'esperienza dell'homeschooling con due (i piu' piccoli) dei miei tre bambini ops.quattro perche' da una settimana e' nato un maschietto ...... anche noi condividiamo qualche cosa con voi buona continuazione vi seguiamo con affetto Beatrice

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie tantissime, Beatrice! Non sai che piacere, leggere queste tue parole! Mi fa tanto bene, in questo periodo così difficile, sapere di poter essere utile anche qui... Tantissimi auguri per la nuova avventura e, soprattutto, ben arrivato al Piccolino!

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