Il titolo del post dice già tutto...
Domenica scorsa, durante la cerimonia di premiazione, la nostra Margherita, che lo scorso anno si era timidamente affacciata al mondo dei concorsi letterari proprio con il concorso "San Lorenzo" di Casumaro (FE), ha ricevuto il suo secondo primo premio nazionale in pochi mesi.
Questa volta, l'argomento da lei scelto per sviluppare il tema assegnato, "Il sogno", è stato forte, serio, impegnativo, soprattutto trattandosi di una ragazzina della sua età.
E ha particolarmente colpito a giuria che, tra i tanti elaborati adulti pervenuti da tutta Italia, ha scelto di premiare lei.
Ecco qui qualche scatto della serata e l'emozione di Margherita sul palco...
La copertina dell'antologia derivante dal concorso e la motivazione della giuria...
Per chi ha voglia di leggerlo ed emozionarsi, ecco il racconto di Margherita.
Le farfalle possono
volare oltre il filo spinato
Era
una fredda notte d’autunno del 1942.
Rebekka Azriel, sette anni, era stesa nel suo letto sotto le
coperte.
Era
tardi: avrebbe già dovuto dormire, sapeva che se la mamma l’avesse scoperta si
sarebbe arrabbiata, ma non poteva smettere di leggere, doveva sapere come andava
a finire l’avventura di Grethe.
Davanti
a lei, appoggiato sul cuscino, il libro di fiabe che le aveva regalato la nonna
era aperto a pagina 302.
Rebekka
fremette per la curiosità: cosa sarebbe successo a Grethe? E il Gatto Rosso
sarebbe stato mangiato dalla strega?
Accanto
a lei, sul comodino, ardeva una candela, che sfrigolò… chissà se la sua luce
sarebbe bastata perché riuscisse a finire il libro.
Incollò gli occhi alla pagina e andò avanti.
Grethe
stringeva forte il Gatto Rosso fra le braccia, ma la Strega della Montagna
allungò le mani per afferrarlo… Rebekka trattenne il respiro… Il
Gatto Rosso cadde e…e…
qualcuno bussò alla porta, giù in salotto.
Sebbene
delusa, Rebekka alzò lo sguardo dal libro.
Chi
poteva bussare alla loro porta nel cuore della notte?
In
salotto si sentì un tramestio, voci confuse.
Rebekka
non resistette.
Decise
che avrebbe spento la candela per non consumarla del tutto e che sarebbe andata
a vedere solo un momento e poi sarebbe tornata a finire la storia.
Così
gettò via le coperte, spense la candela, aprì la porta, uscì sul pianerottolo e
iniziò a scendere lentamente le scale.
Il
buio era rischiarato dalla luce della lampada che avevano acceso in cucina,
come ogni notte.
Le
voci si facevano sempre più vicine.
Più
alta di tutti, quella dura di un uomo sconosciuto.
Rebekka
si fermò ad ascoltare.
“Dobbiamo
partire stanotte, Herr Buch?” chiedeva sua madre con voce implorante “Ma non
siamo pronti, signore, non siamo pronti. Aspettate domani, vi prego”.
“Nein, nein, huete nacht, huete nacht”
diceva la voce sconosciuta in tedesco.
“Non
possiamo stanotte, Herr Buch” si intromise il padre di Rebekka, Yosseph “Non
stanotte. Non siamo stati avvertiti”.
“Huete nacht, huete nacht, arschlöcher!”
gridò l’uomo sconosciuto, e il cuore di Rebekka accelerò.
Chi
era quell’uomo che offendeva i suoi genitori?
Perché
veniva di notte?
Rebekka
si sentì d’un tratto tanto triste e sola.
Partire?
Per
dove?
Quando?
E
soprattutto… perché?
Le
sfuggì un singhiozzo.
Nella
sala tutti si girarono nella sua direzione.
Rebekka
si fece vedere.
Myriam
si asciugò in fretta le lacrime e forzò
un sorriso.
Si
alzò dalla sedia e andò incontro alla figlia, prendendola per mano: “Rebekka,
angelo mio, cosa ci fai ancora sveglia? Dovresti essere a letto, lo sai
piccola? Su, vai a letto, adesso: hai gli occhi di una bimba molto assonnata”.
Beky si
guardò intorno nella stanza.
Al tavolo
era seduto un uomo alto e con gelidi occhi azzurri, freddi come il ghiaccio.
Aveva
una strana divisa, con una pezza sulla manica sulla quale era scritto SchutzStaffel.
Rebekka,
spaventata, abbracciò la madre.
“Mamma,
dove dobbiamo andare?”.
Gli
occhi di Myriam si riempirono di lacrime: “Da nessuna parte, tesoro mio” le
mormorò accarezzandole i capelli “Domani mattina sarà tutto finito…”.
Ma in
qualche modo, Beky sentì che non sarebbe stato così.
L’uomo
dagli occhi di ghiaccio si alzò dalla tavola, ghignò e disse: “Domani mattina alle
cinque. Non un minuto più tardi. Alle porte del ghetto”.
Poi
sparì nella notte.
Rebekka
si guardò attorno, spaventata.
Per
una manciata di secondi la stanza rimase così: muta, immobile, con Yosseph, Myriam
e Rebekka attoniti, sconcertati.
Ma
durò solo un attimo.
Myriam
si alzò e domandò, con un filo di voce: “Cosa facciamo adesso, Yosseph?”.
“Obbediamo,
Myriam, è l’unica cosa che possiamo fare.” rispose l’uomo “Dobbiamo farci
trovare preparati: non sappiamo cosa ci attenda. Ho sentito dire che… che… ma è
meglio che voi non sappiate. Dobbiamo prepararci. Cibo, coperte, vestiti. Tutto
quello che riusciamo a trasportare. Dobbiamo essere forti, Myriam, non possiamo
arrenderci adesso”.
Myriam
si asciugò le lacrime e annuì: “Hai ragione: non dobbiamo arrenderci” poi,
rivolta a Rebekka “Beky, tesoro, forse è meglio che tu vada a letto. Domani
mattina ci dovremo alzare presto. Dobbiamo partire”.
“Per
dove?” domandò la bambina, sconsolata.
“In un posto bello. Te lo prometto”.
“Non
voglio andare a letto, voglio aiutarti” rispose allora Beky.
La
donna sorrise stancamente: “Mi aiuterai con i vestiti, va bene?”.
Rebekka
annuì, convinta.
Quella
notte, nel quartiere Nelewki del
ghetto di Varsavia, nessuno dormì.
Si
prepararono tutti per partire, l’indomani all’alba: avevano tutti ricevuto la
fatidica chiamata.
Nello
strettissimo appartamento della famiglia Azriel tutti si prepararono.
La
mamma riempì due borse di provviste, poi prepararono i vestiti.
Nella
valigia non c’era posto per nient’altro, e Rebekka dovette separarsi dal suo
libro di fiabe.
Al
momento di metterlo via, sentì il cuore spezzarsi: il suo bel libro di fiabe…
cosa ne sarebbe stato?
Le
piaceva così tanto… tutte quelle storie la portavano lontano, lontano dal
ghetto in cui l’avevano chiusa, lontano dalla gabbia di insulti e stelle gialle
che la imprigionava senza neanche sapere perchè.
Lo
aprì all’ultima pagina: aveva un’illustrazione bellissima, così bella che le dispiaceva
quasi staccarla dal suo libro.
Mostrava
Grethe e il Gatto Rosso in una bella casetta al centro di un folto bosco,
sorridenti e contenti, finalmente sereni dopo aver sconfitto per sempre la
Strega della Montagna.
Sopra
era impressa a caratteri neri questa frase:
E
VISSERO PER SEMPRE FELICI E CONTENTI.
Beky
sorrise felice.
La
pieghettò e la strappò con cura dalla rilegatura, poi piegò la pagina rubata in
un quadrato ordinato e fece per infilarla nel vestito, sul cuore.
Abbassando
lo sguardo sul petto incontrò la Stella e, come sempre, guardarla la turbò.
Distolse
lo sguardo e infilò dentro le cuciture la pagina piegata piccola, in modo che
nessuno la notasse, poi si girò e andò ad aiutare la mamma in cucina.
In
fondo, ad essere scarti della società ci si abituava.
Ci si
abituava a tutto.
Soprattutto
se eri una bambina ebrea di sette anni e stavi per partire per un campo di
concentramento.
Ma
non lo sapevi ancora.
***
Verso
le tre di notte, sfinita, Rebekka si addormentò sulla sedia della cucina.
Ignara
del suo destino, la piccola Rebekka sognava.
Sognava
Grethe e il Gatto Rosso che cadevano dalla Montagna e le chiedevano aiuto,
piangendo.
Lei
avrebbe tanto voluto aiutarli, ma non poteva: era rinchiusa in una gabbia di
filo spinato, che non aveva porte da cui potesse uscire.
Dal
soffitto pendeva una stella, una grande Stella di Davide che dondolava,
dondolava, dondolava…
In un
angolo la Strega della Montagna rideva malvagiamente.
Beky,
nel sogno, si spaventò, perché gli occhi della vecchia le ricordavano qualcosa,
ma non riusciva a ricordare cosa…
La
stella del soffitto ruotava, ruotava, ruotava come una freccia, diventando
grande, grande, sempre più grande…
“Beky?
Beky, tesoro, svegliati: è ora di partire”.
Rebekka
si svegliò di soprassalto.
Il
cuore le batteva fortissimo nel petto, contro la Stella che la marchiava
inconfondibilmente come una sporca ebrea da eliminare.
Vedeva
ancora davanti a sé la stella che girava… e la strega che rideva… con gli occhi
freddi e vacui del generale delle SS.
Si
guardò intorno.
Era
nella piccola cucina, seduta sulla sedia vicino al tavolo.
Sulle
spalle aveva una coperta.
La
lampada era stata spenta mentre dormiva, e tutta la casa era immersa nella
penombra lattiginosa dell’alba.
Rebekka
si stropicciò gli occhi e guardò la mamma, già vestita e con gli occhi
arrossati: Beky pensò che doveva aver pianto ancora.
Ma
perché?
Perché
tutti erano così tristi?
Beky,
dall’alto dei suoi sette anni, non capiva proprio nulla.
Si
alzò, salì nella sua cameretta, si svestì e indossò un abito di panno, calze di
lana e scarponcini.
Prese
l’illustrazione e la infilò nella tasca interna che la mamma aveva cucito in
tutti gli abiti.
Prima
di scendere e raggiungere i suoi genitori, Rebekka guardò per l’ultima volta la
sua cameretta.
Le
sarebbero mancati il suo letto, la coperta di lana, il profumo di lavanda, la
scrivania con i fogli da disegno, le matite colorate, le mensole sgangherate
con i libri di fiabe, la finestra con le tende a scacchi da cui guardava fuori
ogni mattina e il gatto Kiko, che sonnecchiava facendo le fusa.
Rebekka,
triste come non era mai stata, aprì la porta, uscì, la richiuse alle sue spalle
cercando di non pensare a ciò che lasciava lì e scese le scale.
Al
momento di lasciare forse per sempre l’appartamento nel ghetto Beky si sentì
stringere il cuore.
Fuori,
nella piazza, erano radunate tre o quattrocento persone.
C’erano
la signora Bahorjudà, il signor Fuerst e la signora Herkoz.
C’erano
le gemelle Ellie e Sellie e i loro genitori; i Krestiz con i loro quattro
bambini; Rudi il fattorino e la sua bella.
C’erano
tutti i loro vicini e moltissime persone che non conosceva.
Vedendo
tante persone, si ricordò di nonna Yael, che non veniva da ormai quasi un mese.
Era
lei che le leggeva le favole prima di addormentarsi.
Beky
sperava che la nonna arrivasse presto, e portasse anche i biscotti.
Ad un
certo punto si sentì un lungo stridio: i cancelli del ghetto erano stati
spalancati.
Gruppi
di SS erano ai lati.
Urlavano
strane parole in tedesco che Rebekka non capì.
Strinse
le mano della madre mentre la folla si spostava in avanti, tutta insieme,
spronata dalle ingiurie delle SS.
Qualche
anziano cadde, qualche bambino rimase indietro in quella marea di disperati
costretti ad abbandonare tutto.
Lentamente,
ciondolando, spinta in avanti, picchiata, umiliata, tutta la gente uscì dal piazzale,
come una marea calante.
I portoni
del ghetto si richiusero in silenzio.
Rebekka
non capì dove stessero andando fino a che non vide il cartello:
Bahnhof von
Warschau.
Erano
alla stazione.
Dovevano
andare molto lontano, allora.
Beky
cominciava ad avere davvero paura.
Sui
binari, un lungo treno bestiame si snodava senza che Beky potesse vederne la
fine.
Qualcuno
aprì le portiere.
Un
ufficiale prese Rebekka e la spinse brutalmente dentro.
Cadde,
sbattè, si rialzò.
Il
suo cuore batteva a mille, e la bambina iniziò a piangere, un po’ per il dolore
e un po’ per la paura.
La
mamma la prese per mano, la sollevò fra le braccia e le diede un bacio: “Non
devi avere paura, piccola mia. Dura poco. Te lo prometto”.
Al
sentire quelle parole Beky smise di piangere e rimase acciambellata sul petto
della madre, con gli occhi chiusi.
Ripensò
a tutte le fiabe che aveva letto, le snocciolò nella mente una per una, ripensò
alle illustrazioni, pensò a nonna Yael e a quando si sedeva accanto al suo
letto e le leggeva storie bellissime di regni lontani.
Pensò
a tutto questo e cadde in un lungo sogno ad occhi aperti, che la salvò dal
dolore e dalla desolazione bruciante di quell’ennesima “retata” di ebrei nel
ghetto di Varsavia, dopo quelle che si erano susseguite per tutto il 1942.
Sognando
di posti lontani, nel suo lungo, bellissimo sogno, Beky si perse e andò
lontano, così lontano che non sentiva più il dolore, la sensazione di star per
soffocare in quel terribile vagone merci stipato di persone, così lontano che
non sentiva più nemmeno la paura, la paura che le faceva battere forte il
cuore.
Rebekka
restò fra le braccia della sua mamma.
Si
abbandonò al suo sogno, e con gli occhi spalancati fissava un mondo incantato
in cui tutto quel dolore, tutta quella sofferenza, tutto quel male non
esistevano, dove non c’erano treni affollati e cani che mordevano, dove le
uniche stelle erano quelle del cielo e non quelle di stoffa che significavano
solo dolore, dove non c’erano SS o chiamate notturne.
Sognò,
sognò di terre smeraldine, montagne innevate, cieli azzurri come quelli che
colorava con le matite colorate, un sole giallo come l’oro e una luna tonda
come i biscotti allo zenzero che preparava sempre la nonna.
Sognò,
sognò per non soffrire, per proteggersi e per non sentire l’amaro della paura
che le bruciava la bocca, le avvelenava il sangue.
Tutte
le volte che Rebekka apriva gli occhi vedeva intorno a sé centinaia di persone
pigiate le une con le altre, tutte spaventate e all’oscuro di dove fossero
dirette, tutte con la morte nel cuore.
Vedeva
finestre strette che lasciavano filtrare la luce pallida.
Vedeva
la mamma che piangeva e il papà appoggiato alla parete, pallidissimo.
Vedeva
la paura e sentiva gli uggiolii dei cani che ringhiavano, sentiva le voci dei
tedeschi e le loro risate malvagie, e allora richiudeva gli occhi e si isolava
nel suo sogno, un sogno che diluiva la paura e leniva il dolore.
Rebekka
sognò fino a che non fece buio e si addormentò.
***
Il
lungo viaggio che dal ghetto di Varsavia doveva portare i deportati al campo di
concentramento di Auschwitz durò tre giorni.
Se si
guardava intorno, Rebekka ormai vedeva solo stelle, stelle di stoffa, stelle
gialle, stelle a sei punte, Stelle di Davide.
Stelle,
stelle.
Lei
era una stella, stella.
Il
vagone era maleodorante, il tanfo pestilenziale di orina, escrementi, sudore e
corpi in decomposizione impregnava l’aria.
Non
c’era luce, non c’era aria.
In
molti morirono durante quel viaggio stremante, che sarebbe rimasto impresso
nella mente di Rebekka come uno dei momenti più terrificanti della sua vita.
Per
lei il mondo era fatto di arcobaleni, disegni colorati, libri illustrati e biscotti
allo zenzero.
Avrebbe
dovuto cambiare idea di lì a poco.
Il
mattino del quarto giorno il treno si fermò.
Le SS
spinsero fuori dai vagoni tutti i deportati, insultandoli, picchiandoli,
sputando loro addosso.
Li
costrinsero a camminare per chilometri e chilometri, fino a che non videro un
cancello enorme che si apriva su un invalicabile muro di cemento armato, sul
quale era sospesa la scritta di ferro battuto AUSCHWITZ.
Entrarono.
Rebekka
vide un enorme spiazzo polveroso e tante baracche.
Uomini
e donne che sembravano fantasmi lavoravano spalando sassi.
Li
spinsero in una baracca e divisero gli uomini dalle donne.
Una
donna alta e robusta, con la divisa delle SS, urlò parole sconosciute in
tedesco.
Smarrita, Beky fece quello che faceva sua madre: svestirsi.
Rimase
nuda e infreddolita fra le altre donne nude e infreddolite.
Poi
furono tutte trascinate in una stanza adiacente, dove la stessa donna di prima
gettò loro addosso secchiate di acqua gelida.
Infreddolita,
smarrita e sperduta fra quelle donne spaesate, Rebekka rimase immobile,
sperando che finisse tutto.
Nella
mano stringeva forte l’illustrazione ripiegata, che era riuscita a prendere
prima che la portassero via per sempre con il suo vestito.
Poi
la donna, con un rasoio affilato, avvicinò tutte le donne e le rasò totalmente,
lasciandole spoglie di ogni pelame, dal pelo pubico, a quello ascellare, ai
peli sottili delle gambe e delle braccia.
Quando
la donna le si avvicinò con un rasoio per tagliarle i capelli, Rebekka cercò di
nascondersi dietro la madre, ma la donna la strattonò malamente
immobilizzandola.
Beky
sentì la lama ruvida scivolare fredda sulla cute e recidere tutti i capelli.
Ad
una ad una, in fretta, tutte le lunghe ciocche di capelli neri le scivolarono
via, cadendo sul pavimento.
Rebekka
guardò i propri capelli per terra, confusa, incredula.
Eppure,
nonostante lo shock terribile, Rebekka non pianse.
Terrorizzata,
restava rigida e immobile con la pagina del libro stretta in pugno.
Delle
donne in divisa distribuirono loro degli strani vestiti, che Rebekka fu
costretta ad indossare.
Erano
una casacca, pantaloni e un paio di mutande di cotone ruvido e scadente, con
larghe strisce blu e bianche slavate come se fossero bagnate di pioggia.
Sulla
pelle pizzicavano orrendamente, ed erano così larghi che a Rebekka cadevano
addosso come stracci.
Poi
arrivarono le “scarpe” se quegli zoccoli di legno, duri, si potevano chiamare
scarpe.
Erano
anche quelli così grandi che Beky incespicava.
Poi
furono condotte in un’altra stanza.
Lì
un’ulteriore donna le costrinse a mettersi in fila davanti a un tavolo.
Quando
arrivò il suo turno, un’infermiera le immobilizzò l’avambraccio sinistro con le
sue grosse mani, mentre un’altra donna prese un ago e cominciò a tracciare dei
numeri sulla sua pelle.
Quando
iniettò quel liquido blu nei segni tracciati, un bruciore incredibile la
pervase in tutto il corpo, un pizzicore mai provato, un dolore acutissimo.
Era
come se le premessero un ferro arroventato sulla pelle.
Quando finì, l’infermiera la spinse via.
Quando
fu raggiunta dalla madre, qualche minuto dopo, Rebekka vide che anche lei era
stanchissima e sfinita.
Rebekka
guardò, ancora intontita dal dolore, ciò che le avevano tatuato sul braccio
sinistro.
Era
un numero a grosse lettere blu: 004537.
D’ora
in poi, anche se la bambina non lo sapeva, non sarebbe più stata chiamata con
il suo vero nome: sarebbe per sempre stata solo un numero.
004537.
Tutte
le donne uscirono, poi furono trascinate nella baracche.
La loro
baracca era un tugurio umido e lercio con pareti nere e scrostate, decine di
strettissimi lettini a castello a tre piani e null’altro.
Una
donna spiegò in tedesco che ognuna avrebbe avuto un letto, una tazza di
alluminio e un cucchiaio di stagno per mangiare: se li avessero persi non ne
avrebbero avuti altri.
Poi
distribuì i suddetti oggetti e descrisse la giornata tipo nel campo di
Auschwitz.
Al
mattino alle cinque sveglie.
Appello.
Colazione.
Lavoro
in uno qualsiasi dei luoghi addetti.
Pranzo
a mezzogiorno.
Lavoro
per il resto del pomeriggio fino alle sette.
Appello.
Cena.
A
letto alle otto e mezza esatte.
Visto
che stava calando la sera, non mangiarono.
Ci fu
l’appello, talmente lungo, nel freddo di ottobre, che due o tre donne morirono
di freddo e stanchezza quello stesso, primo giorno.
Aggrappata
ai suoi sogni, Rebekka resistette stoicamente alle tre ore di supplizio,
immobile e dritta come un soldatino di piombo.
Poi
andarono a dormire.
Fu
lì, nel letto con la madre, che Rebekka scoppiò finalmente a piangere.
***
Da
allora, le giornate divennero tutte uguali.
Rebekka
era svegliata la mattina all’alba, così presto che il cielo era ancora nero e il
sole non si vedeva, poi camminava come un automa fino alla sala che chiamavano
mensa.
Beky
capì subito che il campo di concentramento era basato solo su menzogne.
Non era
vero che ognuna di loro avrebbe avuto un letto.
Dormivano
ammassate su materassi stretti come assi di legno, con brandelli di lana a
proteggerle da un freddo così acuto che alcune venivano trovate morte, il
mattino.
La
colazione non era una vera colazione, i pasti veri pasti.
Una
tazza di un caffè preparato con un cucchiaio di caffè su un litro d’acqua non
era una colazione.
Un
mestolo di acqua insaporita vagamente di ceci e cipolla non era un pranzo.
Acqua
tiepida con brandelli di cavolo ammuffito non era una cena.
Non
era pane, se a mezzo chilo di farina mischiavi un chilo di segatura e
aggiungevi un litro d’acqua, e con quel pane dovevi far mangiare cento donne.
Non
era lavoro, quello che loro chiamavano così: era massacro.
Anche
i bambini lavoravano.
La
prima volta che si recò alla cava, Beky non sapeva cosa l’aspettasse.
Per
prima cosa le fu data una pala: era talmente pesante che quando la sollevò
cadde per terra.
Fece
per rialzarsi, ma un ufficiale cominciò a calciarla, calciarla, calciarla.
Le
sputava addosso, la picchiava, le sferrava pugni.
Sotto
quei colpi brutali, la piccola Beky si acciambellò, inerte, facendosi piccola.
Mentre
veniva picchiava, mentre anche il battito martellante del suo cuore spariva
sotto il rombo di quei colpi selvaggi, Rebekka chiuse gli occhi e si immaginò
lontano.
Si ricordò
di quando da piccola la mamma, quando si sbucciava un ginocchio, lo fasciava
con una garza e la baciava sulla fronte, dicendole che era una bambina forte.
Pensò
a quando era malata e la madre le portava a letto un bicchiere di latte con il
miele.
Si
concentrò con tutte le sue forze su quel ricordo, sul tepore del latte contro
le sue mani, sul sapore dolce del miele.
Ma,
in una triste catena, il pensiero del latte risvegliò in lei il ricordo di
quell’infame colazione che le era stata servita, quella tazza di acqua
polverosa che spacciavano per caffè e che lei aveva ingoiato.
Le
fece tornare in mente la fetta di quello che lei pensava fosse pane che le
avevano dato e che lei, ignara, affamata da due giorni di digiuno, aveva trangugiato.
Mentre
pensava a ciò, mentre veniva percossa, con i morsi della fame tornò il dolore
dei calci, calci che la raggiungevano ovunque, sul petto, sulle costole, sul
volto, sulle gambe, le braccia, la schiena, le scapole, nonostante cercasse di
proteggersi con le esili braccia il corpo avvolto dalla larga camicia a
strisce.
Quando
l’uomo si fu stancato di picchiarla la costrinse ad alzarsi, le lanciò addosso
la pala e la spinse in avanti.
Dolorante,
con lunghi graffi ovunque, lividi sparsi dappertutto dove avrebbero dovuto
esserci solo carezze, Rebekka raccolse la pala e stoicamente non si lamentò,
andò avanti, cercò di ignorare il dolore.
Il
lavoro nelle fosse fu ancora peggio.
Ore e
ore, senza sosta, senza tregua, senza respiro, a sollevare pesantissime palate
di sabbia da mettere da parte, solo per il gusto di far soffrire persone
innocenti, che tanto appena avevano finito ricacciavano la sabbia nei fossati e
gliela facevano spalare ancora, e ancora, ancora, fino allo sfinimento, fino
alla morte.
E
allora ancora lavoro, lavoro, lavoro, pazzo lavoro, folle lavoro, massacrante
lavoro.
Mentre
spalava chili e chili di sabbia, inutile sabbia, la piccola Rebekka si
domandava perché fosse lì, perché dovesse lavorare a quel modo.
Si chiedeva
se fosse stata una bambina così tanto cattiva da meritarsi di non avere cibo,
si chiese cosa avesse fatto di sbagliato per essere punita con quel lavoro così
duro.
Si
chiese perché nonna Yael non fosse lì, e cosa stesse facendo Kiko in quel
momento, nella sua cameretta, diecimila chilometri e mille vite lontano dal
campo di Auschwitz.
E
allora, mentre cadeva e si rialzava, e spalava sabbia e pensava, e spalava
sabbia e sognava, e spalava sabbia e spalava, spalava, spalava, Beky pregò e
chiese scusa al Signore per il suo errore, Gli chiese di perdonarla perché non
voleva essere una bambina cattiva e se lo era stata le
dispiaceva, Gli chiese per favore di farla tornare a casa, nel ghetto, nella
sua casa e nella sua cameretta, nel suo letto dove il libro di fiabe di nonna
Yael l’aspettava a pagina 302.
Gli
chiese infine di perdonare le persone con i pigiami a righe intorno a loro, e
cercò di spiegare a quel Dio che anche loro se erano stati cattivi non
intendevano esserlo, e che forse desideravano tutti tornare a casa nelle loro
camerette, che sembravano così tristi e magri da assomigliare a fantasmi.
La
preghiera fiduciosa di Beky durò così tanto che si era già fatto buio quando
finì.
Con
le braccia e le gambe distrutte, la schiena spezzata dal peso immane per le sue
ossa di bimba, un’unica parola in mente (PERCHÈ?), finalmente, sfinita, Beky
tornò nella sua baracca.
Le
stelle splendevano.
Nonostante
la stanchezza e il dolore, Beky non poté fare a meno di vederle: brillavano,
brillavano, brillavano oltre il filo spinato, brillavano come brillavano da
dietro le tende della finestra della sua cameretta.
Brillavano
e parevano farle ciao ciao, e Rebekka si disse che forse Dio le stava dicendo
che le voleva bene.
***
Beky
si abituò alla vita nel campo.
Eppure,
ogni volta che vedeva qualcuno soffrire, sentiva ancora quella fitta al centro
del petto, e visto che era circondata da sofferenza, si sentiva sempre molto
triste.
Anche
lei, piano piano, divenne un piccolo fantasma grigio.
Quel
poco grasso che aveva attaccato alle ossa sparì: della bimba di un tempo non
rimaneva che uno scheletro pallido, con profondi occhi tristi e il cranio
calvo, un largo pigiama a righe che le pendeva dalle membra scarne e labbra
bianche, tirate dalla mancanza di sorrisi.
I
grandi occhi neri, brillanti come una volta ma molto più profondi e adulti,
avevano l’intensità bruciante dei calci sulle sue ossa sottili ed erano cerchiati
da pesanti occhiaie scure.
Ma
Rebekka non si rendeva conto di questi cambiamenti nel suo aspetto.
L’unica
cosa che sapeva era che aveva fame, sempre fame, perennemente fame, così fame
che a volte la notte piangeva, tanto lo stomaco si contraeva dolorosamente in spasmi terribili, vuoto.
Durante
la giornata Beky abbassava la testa e obbediva, camminava quando doveva
camminare, spalava la sabbia quando doveva, ingollava il cibo che le davano,
senza fiatare.
Quando
una SS doveva sfogarsi e, attirato dai suoi ardenti occhi neri, sceglieva lei, Rebekka
si lasciava picchiare.
All’inizio
piangeva, poi capì che era tutto inutile: l’avrebbero picchiata lo stesso, così
smise del tutto di interessarsi a cosa le facevano.
Anche
se aveva solo sette anni, imparò così bene a distaccarsi dal suo corpo e a
volare oltre, con la mente, lontano, lontano da quell’inferno, che quasi non
sentiva più il dolore.
Bastava
che chiudesse gli occhi e sognasse molto intensamente, che pensasse a cose
belle, così tanto che cancellava le cose brutte che le accedevano.
O
quasi.
La notte
sentiva lo stesso il dolore sordo dei lividi sulla sua pelle.
L’unico
modo che aveva Rebekka di dimenticare era sognare.
Sognava
quello che non aveva e avrebbe tanto desiderato avere.
Tè
con i biscotti allo zenzero.
Latte
caldo col miele.
Il
pane appena sfornato che la mamma preparava quando lei era ancora molto piccola
e il ghetto, la Shoah e i campi di concentramento erano solo un’ombra lontana.
Le blini warschafski, frittelle dolci al
limone, che zia Tamar portava sempre per merenda, quando ancora viveva a
Varsavia e non era sparita.
Sognava
cose semplici, cose di sempre che la facevano sentire al sicuro in quell’esistenza
di terrore e spaesamento, cose comuni come l’odore del matzah, pane non lievitato; il tepore delle candele che accendevano
ogni sabato di festa; il suono carezzevole delle preghiere e il suono vibrante
delle fusa di Kiko, quando la notte dormiva con lei.
Sognava
di quando nonna Yael le leggeva le storie per farla addormentare.
Sognava
la sua camera, con la finestra con le tende a scacchi e la coperta di lana.
Sognava
la sua palla con cui giocava vicino al portone del ghetto e fra i vicoli bui
che le parevano dedali di labirinti fatati.
Sognava
il sole delle giornate d’estate e la sensazione di libertà che le dava correre
fra i prati che circondavano la sua casa a Powiśle, prima che obbligassero la
sua famiglia a vivere nel ghetto di Varsavia.
Sognava
i piccoli oggetti che scandivano la sua vita di prima e che aveva dovuto
abbandonare.
Rivedeva
spesso la bella bambola Yara che nonna Yael le aveva regalato e che era l’unico
giocattolo che avesse mai avuto.
Ora,
sola in quel letto stretto, avrebbe tanto desiderato avere accanto a sé la sua bambola,
poter ritrovare in lei un po’ del profumo della sua cameretta, lontana mille
chilometri.
Sognava
i suoi nastri colorati, e la spazzola di legno.
Sognava
il suo vestito rosa con le maniche corte e la camicia da notte con i fiocchi
azzurri; il portacandele sul comodino e le scarpette di vernice che aveva
indossato solo una volta prima di doverle lasciare.
Sognava
la scatoletta in cui conservava il suo primo dentino caduto e la sua preziosa
collezione di bottoni, insieme al quadrifoglio che aveva portato e aveva
seccato fra le pagine del suo libro di fiabe preferito.
Sognava
la bussola che avevano in sala, sul comò, e i disegni che tappezzavano le
pareti della sua cameretta.
Sognava
i cucchiai della cucina che riflettevano la luce e il suo quaderno con la
copertina rossa, su cui aveva imparato piano piano a leggere e scrivere, grazie
a tata Margaretha.
Poi
c’erano i ricordi veramente eccezionali, quelli che sognava solo raramente e
quando si svegliava era felice per tutta la giornata: tipo la volta in cui il
papà l’aveva portata in città e le aveva comprato il primo libro tutto suo, o
quello in cui aveva visto un uomo
portare in mano un mazzo di palloncini di tutti i colori.
Questi,
però, erano i sogni belli.
C’erano
anche i sogni brutti, e quelli le facevano tanta paura.
A
volte, le più terribili, sognava il lungo viaggio sul treno bestiame da
Varsavia fino ad Auschwitz.
Risentiva
di nuovo tutto, la paura, il terrore, le lacrime che le soffocavano la gola, i
tremiti che la scuotevano da capo a corpo, la sensazione di essere perduta per
sempre, il calore del seno materno mentre Myriam la prendeva in braccio, le
urla e le grida delle SS, il guaire furioso dei cani.
Rebekka
continuava a sognare tutto il giorno: era l’unico modo che conoscesse per
combattere la paura.
Quando
le veniva servita la “colazione” ripensava intensamente al latte col miele e
alle frittelline al limone della colazione, e ci riusciva così bene da non
sentire quasi la fame.
Quando
spalava la ghiaia immaginava di star raccogliendo la sabbia in un secchiello
per costruire un castello di sabbia per la sua bambola.
Quando
la sfiancavano crudelmente con inutili esercizi di ginnastica, Rebekka sognava
che fosse solo un gioco, che i gemiti intorno a lei non esistessero, che il
dolore alla schiena fosse perché aveva riso troppo, e che stesse solo sfidando
Elisheva a chi saltava più in alto.
Conservò
sempre la pagina del libro di fiabe, anche quando l’umidità scolorì
l’illustrazione, privandola dei colori brillanti e cancellò la scritta.
***
Era
un’umida mattina del 1944.
Il 2
aprile: appena primavera, in Polonia.
L’inverno,
ad Auschwitz, era stato tremendo.
Rebekka,
che aveva ora otto anni e mezzo, sembrava più piccola di quando era entrata.
Nessuno
avrebbe riconosciuto in quello scheletro grigio, in quegli occhi ardenti da
adulta e in quel viso affilato la bambina vivace che era stata Rebekka fino a
un anno e mezzo prima.
Quella
mattina, come sempre, Beky si svegliò, rifece il letto e si mise in fila.
Una
lunga, smisurata fila di donne camminava lentamente verso la colazione.
Dopo
il misero pasto, Rebekka si posizionò al suo posto per l’appello di ogni
mattina.
Era
la beniamina di tutte le donne della sua baracca, e questo affetto nei suoi
confronti era ritenuto pericoloso.
Sebbene
non fosse né più magra né più malata o debole di tante altre donne, non ci
misero molto a farle fare una visita medica… e a far finire il suo nome su una
lista.
La
stessa lista che la kapò recitò ad alta voce quella mattina.
“006999,
46709, 225578, 004538, 004537…” la lista si snodò.
“Tutti i numeri che ho chiamato” disse in
tedesco la kapò “Seguitemi. Siete convocate nella sala docce”.
Il
cuore di Rebekka si librò come una farfalla nel suo petto.
Non
riuscì a trattenere un sorriso, che illuminò il suo visino pallido, quasi
vecchio.
Era
così felice, oh, così felice!
Una
doccia!
Si
guardò intorno, per cercare la madre e condividere con lei la sua felicità, ma
rimase sconcertata: accanto a lei Myriam sembrava triste e spaventata.
Perché
la mamma era così triste?
Sembrava
così preoccupata… ma stavano andando a farsi una doccia, stavano solo andando a
farsi una doccia…
Rebekka
si fidava degli essere umani, e proprio per questo era stata scelta come
vittima.
Myriam,
invece, sapeva: sapeva che… che…
Rebekka,
Rebekka, piccola Rebekka, anima bianca e pura, cuore generoso e innocente fra
centinaia di anime nere e mani lorde di sangue, vittima sacrificale di colpe
che non aveva commesso… lei, proprio lei… sarebbe morta.
Perché
Myriam sapeva la verità, sapeva cosa le aspettava: sapeva che la sua amata
bambina non sarebbe mai uscita dall’inferno di Auschwitz.
Che
non avrebbe mai rivisto la sua cameretta, o il suo libro di fiabe.
Che
non avrebbe mia più sentito il sole sulla pelle o il solletico delle farfalle
sulle braccia nude, d’estate.
Sapeva
che non sarebbe mai tornata a Varsavia, e che mai più avrebbe accarezzato Kiko,
o sentito il profumo dei fiori.
Che i
suoi capelli non sarebbero più ricresciuti, che il suo sorriso non avrebbe più illuminato
i pomeriggi di pioggia…
Sapeva
che non avrebbe mai visto nonna Yael e nemmeno il suo papà, Yosseph, morto un
anno prima…
Il
libro di fiabe l’avrebbe aspettata per sempre, invano, sul suo cuscino nella
piccola camera nel ghetto di Varsavia, aperto per l’eternità a pagina 302.
Myriam
si ridestò dalle sue tristi riflessioni.
Intorno
a loro c’era un brusio diffuso di voci.
La
kapò ordinò ai numeri che aveva chiamato di mettersi in fila a due a due e recarsi alla sala docce.
Rebekka
si unì alla fila.
Si
allontanarono dalla piazzola, mentre tutto intorno a loro c’era silenzio,
silenzio di morte.
Rebekka
camminava spedita, avvicinandosi alla sala docce, trotterellando verso la sua
fine come un agnello verso il lupo.
Raggiunsero
una baracca di cemento armato, senza finestre e con solo una porta blindata, di
ferro.
Rebekka
era troppo felice per preoccuparsi di quella porta blindata che invece
significava tutto.
Entrò
in quella stanza dove avrebbe trovato la morte con il sorriso sulle labbra.
Dentro,
la sala docce era fredda e nuda, completamente vuota a parte i becchi di ferro
che sporgevano dal soffitto e dai quali sarebbe dovuta uscire l’acqua.
Due
SS ordinarono loro di svestirsi e distribuirono un asciugamano per uno.
Sembrava
tutto così normale… Rebekka non sospettava di nulla, e mai avrebbe sospettato.
Entrarono
nella stanza.
Le SS
rimasero fuori.
Una
penombra livida empiva la stanza.
I
tubi per l’acqua rilucevano stranamente nell’oscurità.
Dietro
di loro, la porta blindata si chiuse con un tonfo sordo, si sentì il raschio
della serratura che entrava nella parete, il rollio di ingranaggi che
ruotavano, il ticchettio di manovelle e leve tirate.
Poi,
la serratura che scattava una seconda volta.
Erano
chiuse dentro.
Ignara,
Rebekka si acciambellò per terra, in un angolo.
Era
così stanca… gli occhi le si chiudevano, le palpebre pesanti come le coperte
del suo lettino, che ogni notte la madre le rimboccava.
La
sua mamma si sedette accanto a lei.
Le
passò un braccio intorno alle spalle, stringendosela delicatamente al petto.
Poi
prese il grande asciugamano bianco e vi avvolse la bambina, come se le stesse
rimboccando le coperte prima di andare a dormire… ed era così, pensò Myriam con
la morte nel cuore: le stava rimboccando le coperte per l’ultima volta, perché
la sua piccola Beky presto si sarebbe addormentata e non si sarebbe svegliata
più.
Le
stava dicendo addio.
Myriam
la baciò sulla fronte e le sussurrò, piano, con la voce rotta dalle lacrime:
“Durerà poco, angelo mio, durerà poco… fra poco non sentirai più niente. Dormi,
piccola mia, dormi… La mamma ti proteggerà…” le si spezzò la voce “…La tua
mamma ti proteggerà per sempre. Dormi, angelo mio, fai la nanna. La… nanna”.
E
detto questo iniziò a cantare, in fior di labbra, la ninnananna che le cantava
sempre quando era piccola.
Cantò,
e Rebekka si sentì felice, così felice che le veniva quasi da piangere.
Sorrise.
E su
quel sorriso si addormentò.
Nel
sonno, Rebekka sognò.
Sognò
una grande farfalla che volava e volava, sbatteva le ali e saliva, saliva,
saliva, come i palloncini che aveva visto una volta, saliva leggera e volava,
volava.
Sotto
di lei c’era il campo di Auschwitz, si vedeva la baracca numero 423, e tanti
bambini che salutavano con la mano, facendo ciao ciao.
C’era
la cava, e la sabbia, nel sole, brillava.
La
farfalla salutava i bimbi a volava oltre.
Poi
si vedeva lo spiazzo, dove le SS facevano l’appello e le donne attendevano,
immobili.
La
farfalla salutava e volava oltre.
Poi
c’erano le ciminiere, e i forni, quei grandi forni neri che sputavano
ininterrottamente fumo nauseabondo che sapeva di pelle bruciata, capelli strinati
e fiammiferi allo zolfo.
La
farfalla salutava anche i comignoli e volava oltre.
Poi
c’era la sala docce, e la farfalla salutava anche i bimbi che aspettavano là
fuori.
La
farfalla volava oltre.
Infine,
vedeva il grande muro di filo spinato, così alto da parere infinito.
E
allora si alzava, si alzava, si alzava, volava, volava, sbatteva le ali.
Le sue
ali colorate sbiadirono e divennero bianche come la neve, di un candore
inimmaginabile, così bianco che dovette chiudere gli occhi, chiudere gli occhi…
La
farfalla ci riuscì: sbattè un’ultima volta le ali e superò il muro di filo
spinato, per sempre.
Addormentata,
Rebekka sorrise.
La
farfalla ce l’aveva fatta… e poi sparì all’orizzonte…
Nel
sonno, Rebekka era serena.
Fu
per questo che quando i becchi dell’acqua furono aperti, Rebekka non lì sentì:
dormiva beata e sognava una farfalla bianca, una farfalla che faceva ciò che
lei non avrebbe più potuto fare: volare oltre il filo spinato.
La
piccola Rebekka non sentì il gas che usciva con un sibilo dai fori, l’aria che
diventava irrespirabile, i gemiti, le grida, le urla, le suppliche, una nebbia
giallastra invadere tutto e confondere ciò che le stava intorno; non sentì i
respiri farsi affannosi, singhiozzi, lamenti, tonfi di corpi che cadevano,
unghie che raschiavano il pavimento, neonati che piangevano, il fischio del
gas, pianti, pianti sommessi.
Non
sentì le lacrime della sua mamma che la stringeva forte e cantava ancora la
ninnananna per accompagnare la sua bambina alla morte, non sentì le sue braccia
che la sollevavano e se la portavano sulle ginocchia per sentire gli ultimi
battiti del suo cuore.
Non
sentì urla elevarsi oltre il gas che calava, gli spasmi che contrassero i corpi
sfiniti delle donne, i crampi, gli ultimi gemiti e poi il silenzio, più
assordante del rumore.
Non
sentì la sua mamma farsi fredda.
E
quando la morte arrivò, Rebekka non la vide.
Stava
inseguendo una farfalla dalle ali bianche.
Rebekka
morì nel sonno, senza accorgersi del gas che la soffocava e del respiro che non
arrivava più.
Quel
giorno, nonostante tutto, Rebekka fu felice.
Quando
anche l’ultima donna morì, calò solo il silenzio, nella piccola baracca della
morte di Auschwitz.
La
Morte entrò in silenzio, quel mattino del 2 aprile 1944.
Entrò
da quella porta chiusa e si guardò intorno: i corpi erano dappertutto, ma ormai
accadeva tutti i giorni.
La
Morte accolse tutte le anime di quelle povere donne e le portò via con sé, caricandosele
sulle spalle, come faceva sempre.
Poi,
però, vide quella bambina.
Era
rannicchiata sulle ginocchia della madre e, incredibile ma vero, sorrideva.
Sembrava
ancora viva.
Incredibilmente
viva.
Ma la
Morte sapeva fare il suo lavoro, e sapeva che la piccola Rebekka era morta: il
suo cuore, sotto il pigiama a righe, non batteva più.
La
guardò così beata e piccola e quasi le dispiacque strapparla all’abbraccio
eterno della sua mamma.
Ma
doveva farlo, non poteva più aspettare.
Fu
molto delicata, con lei.
Si
inginocchiò davanti al corpicino di Rebekka e mentre prendeva la sua anima
cercò di non farle male.
Sollevandola,
qualcosa scivolò per terra: era la pagina di un libro, ripiegata con cura,
nascosta dietro la stella che aveva appena liberato.
Avrebbe
voluto poterla restituire alla bambina, ma la Morte conosceva le regole, e le
anime che lasciavano la Terra non potevano portare con sé niente di terreno,
durante il loro lungo viaggio verso l’Aldilà.
La
Morte prese anche l’anima della madre e se la caricò sulle spalle, come tutte
le altre.
Quando
fu il momento di buttarsi sulla schiena anche l’anima di Beky, non se la sentì
di svegliarla e buttarla nel mucchio.
Se la
tenne fra le braccia.
E fu
così che la piccola Beky lasciò la crudeltà di questo mondo per trovare
nell’Aldilà ciò che qui non aveva mai avuto davvero: amore.
E
anche lei, alla fine, come aveva tanto sognato, volò via.
Perché,
in fondo, le farfalle possono volare oltre il filo spinato.
Concludiamo con tre articoli apparsi tra ieri ed oggi sui quotidiani locali.
La Nuova Ferrara, 06/08/2018
Il Resto del Carlino Ferrara, 07/08/2018
La Nuova Ferrara, 08/08/2018
Complimenti ancora e che tanti tuoi sogni possano realizzarsi!
RispondiEliminaChe gioia! Complimenti!!!
RispondiEliminaLuisav
Mi hai fatto commuovere!!!
RispondiEliminaHo la pelle d' oca.
RispondiEliminaMargherita hai un talento davvero prezioso, ti auguro di realizzare tutti i tuoi sogni.
Con affetto Chiara
Infiniti complimenti per il tuo talento! Che tu possa realizzare il tuo sogno!
RispondiEliminaBravissima, complimenti!
RispondiEliminaComplimenti. Non è facile trattare con dolcezza e poesia un tema come questo e scrittori "grandi" sono spesso scaduti nel banale. Tu, Margherita, no. Hai raccontato la storia di Rebekka con la delicatezza e il rispetto che solo un'anima profonda può avere.
RispondiEliminaGrazie per la condivisione.
Ho letto il racconto e ho pianto.
RispondiEliminaIl racconto è pieno di argomenti profondi e intensi.
Complimenti per tutto e tanti auguri a tutti!
Un abbraccio.
Sono veramente senza parole... i vostri commenti mi hanno davvero commossa!
RispondiEliminaNon mi aspettavo di suscitare emozioni così forti, e il vedermi circondata da così tanto affetto è il regalo più bello che tutti voi mi poteste fare.
In risposta alle vostre bellissime parole riesco a trovarne solo una.... grazie!
L'incoraggiamento che mi avete dato e continuate a darmi ogni volta anche solo leggendo il mio racconto è impagabile.
Grazie, grazie di cuore!
Un abbraccio a tutti con tanto affetto e gratitudine,
Margherita
Grazie, Margherita! La Storia dei Bambini e degli Uomini e delle Donne non va dimenticata...Grazie per aver dato Loro non solo la voce, ma l'Anima. Grazie!
RispondiEliminaAwesome bblog you have here
RispondiElimina