venerdì 10 giugno 2011

PERCHÈ FARE SCUOLA IN CASA


Considerazioni etico-teologiche
Partiamo da alcuni principi fondamentali di ordine filosofico, che costituiscono le premesse fondamentali generali dell’intero discorso.
L’uomo è l’essere creato da Dio, dotato di un corpo animale e di un’anima spirituale immortale; le proprietà prime dell’anima, principio di vita, sono l’intelletto e la volontà. Per giungere ad un adeguato livello di sviluppo e di maturità della persona umana, la volontà necessita dell’educazione e l’intelletto necessita dell’istruzione. La “formazione” globale della persona comprende educazione ed istruzione.
In questo contesto, la scelta di fare scuola in casa, senza mandare i propri figli in scuole esterne, pubbliche o private (cosiddetta homeschooling) nasce anzitutto dalla constatazione che il buon Dio ha affidato i figli, in tutto e per tutto, ai suoi genitori e non alle “tate” del nido e della materna e neppure alle “maestre” delle elementari. “In tutto e per tutto” significa che i figli sono affidati alle cure genitoriali non solo riguardo all’educazione, ma anche riguardo all’istruzione.
La scuola dovrebbe intervenire solo se e quando la famiglia non fosse in grado di istruire adeguatamente i propri figli, aiutando la famiglia nella formazione globale dei bambini e dei ragazzi, affiancandosi ad essa e mai sostituendola.
Considerazioni storiche
La maggior parte dei genitori nutre la ferma convinzione che la scuola sia un vantaggio del presente, rispetto ad un passato, anche recente, fatto di ignoranza diffusa e profonda.
Tutto questo manifesta con estrema chiarezza un dato caratteristico della società odierna: la presunzione e la superbia. Ma come: la scuola esiste da appena 150 anni circa, quindi nei 12.000 anni precedenti sono stati tutti cretini? Se per millenni le scuole non sono esistite e se questi millenni hanno prodotto tante menti illustri (ad esempio: Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Francesco Giuseppe d’Asburgo, ecc.), è così assurdo pensare che forse siamo noi contemporanei a sbagliare?
Tutti (o quasi) vanno a scuola; nessuno (o quasi) conosce la storia della scuola contemporanea. Dico “contemporanea” perché le scuole dell’età pre-moderna e soprattutto pre-illuministica erano qualcosa di completamente diverso dalla scuola così come noi oggi la viviamo, la vediamo e la concepiamo.
Nell’Europa occidentale le scuole pubbliche nacquero nella seconda metà dell’800: si trattava di scuole statali aperte a tutti, a costi modestissimi o addirittura nulli. Qualche decennio dopo (siamo ai primi del ‘900; in Italia negli anni ’20) ecco che succede qualcosa senza precedenti: le leggi statali rendono obbligatorio garantire ai figli un livello minimo di istruzione, quantificato in anni (all’inizio 3, poi 5, quindi 8, ora 10). A partire da quel momento, fermo restando l’obbligo di legge, le famiglie avevano dunque la possibilità di scegliere: o istruire i propri figli a casa, facendo superare loro gli esami di stato presso scuole pubbliche o private riconosciute; oppure, qualora non fossero in grado di farlo, dovevano obbligatoriamente iscrivere e mandare i propri figli a scuola. Per la quasi totalità delle famiglie quest’ultima fu la scelta obbligata, a causa della miseria e dell’analfabetismo che impedivano alle famiglie di occuparsi in proprio dell’istruzione dei figli.
Per evitare sconquassi sociali ed un effetto eccessivamente “impattante” della riforma, i governi liberali furono per così dire “costretti” a lasciare le due alternative della scuola privata e dell’istruzione familiare: in Italia infatti molte erano le famiglie nobili che per lunga tradizione educavano i propri figli in casa e molte di queste erano collegate al governo in vario modo, oppure godevano di un tale prestigio ed importanza sociale da non poter essere sottovalutate in maniera disinvolta; inoltre, erano molto diffuse le scuole religiose delle parrocchie, delle diocesi, dei conventi, degli ordini e delle congregazioni religiose, sia secolari che regolari. In un paese protestante come la Germania, i liberali ebbero libertà totale ed usarono la mano pesante, cosicché ancora oggi colà è obbligatorio mandare i propri figli a scuola, essendo vietata per legge l’istruzione familiare.
Fu così che in Italia nacque il grande equivoco in cui cadono tutti (o quasi) ancora oggi: quello di credere che sia obbligatorio mandare i figli a scuola, quando – più semplicemente – è obbligatorio garantire loro un livello minimo di istruzione.
I governi liberali sapevano benissimo che la quasi totalità delle famiglie avrebbe mandato i propri figli alla scuola pubblica, per le ragioni sopra esposte e soprattutto perché le scuole private esistenti, gestite da enti religiosi cattolici, erano poche di numero, ubicate in gran parte nelle città e per giunta erano normalmente a pagamento, anche se spesso venivano accolti gratis et amore Dei parecchi ragazzi capaci intellettualmente ma dotati di scarsi mezzi economici. L’istruzione familiare rimase appannaggio di quei pochi che, già prima dell’introduzione dell’obbligo dell’istruzione, di fatto già curavano in proprio l’istruzione dei propri figli: si trattava perlopiù di famiglie nobili, di campagna o di città che fossero. L’esempio classico è quello del conte Giacomo Leopardi di Recanati: educato fino a 7 anni da un religioso assegnatogli come precettore; poi istruito personalmente dal padre, il conte Monaldo, fino all’età di 15 anni. Il risultato fu il più grande poeta lirico della letteratura italiana. E tanto era chiusa, oscurantista e retriva l’educazione tradizionalista, conservatrice e cattolico-integrista del periodo della Restaurazione, che il giovane Leopardi ricevette un’istruzione tale da renderlo uno degli uomini più colti di tutti i tempi, assumendo una tale libertà di pensiero da abbandonare del tutto il cattolicesimo per darsi ad un ateistico pessimismo cosmico (salvo, poi, richiedere i Sacramenti in articulo mortis).
Ora, bisogna chiedersi: perché i governi liberal-massonici dell’800 vollero istituire le scuole pubbliche? Gli obiettivi perseguiti dalla cricca cavouriana erano fondamentalmente tre.
Il primo obiettivo era quello di acquisire il monopolio dell’istruzione di massa di tutta la popolazione, per pilotarne la formazione allo scopo di inculcare nelle masse i principi della massoneria, così da renderli ostili al grande avversario della massoneria: la Chiesa Cattolica. Faceva parte di questa strategia anche l’obiettivo intermedio di creare una classe dirigente istruita e formata presso strutture non ecclesiastiche.
Il secondo obiettivo era quello di creare dei “cittadini modello” specie all’indomani dell’unificazione politica della penisola, tutti quanti educati allo stesso modo e tutti quanti sottomessi allo stesso unico governo, ligi agli ordini e fedeli ai superiori. Un popolo dove tutti hanno ricevuto la stessa identica formazione è un popolo omologato, spersonalizzato e quindi facilmente manovrabile. Sotto questo aspetto è significativa la scelta dell’età in cui fare iniziare l’obbligo scolastico: 6 anni. Non è una età scelta a caso. Lenin, che conosceva bene la pedagogia protestante di Pestalozzi, era solito ripetere “Datemi un bambino fino a 7 anni e poi tenetevi tutto il resto. Quel bambino sarà sempre dalla mia parte”. Ed infatti il protestante italo-svizzero Pestalozzi aveva visto giusto: la formazione delle strutture fondamentali dell’identità della persona avviene nei primi 7 anni di vita ed il più fruttuoso per l’apprendimento è l’ultimo, dai 6 ai 7 anni. Sempre per questa ragione, nelle Case Reali il principe ereditario restava sotto la diretta educazione della Regina Madre fino a 7 anni compiuti; poi iniziava l’istruzione militare che ne avrebbe fatto un monarca. L’obiettivo era fare sì che il principe, quando fosse stato Re, conservasse in sé la dolcezza dell’educazione materna (in quanto il Re era il pater pauperarum), unita alla fermezza ed al rigore di una educazione militare acquisita dopo e necessaria per governare una nazione (in quanto il Re era anche il defensor pauperarum).
Il terzo obiettivo si inquadra nell’ambito della seconda rivoluzione industriale. Fino a quando la totalità della popolazione lavorava in campagna ed era addetta all’agricoltura o alla pastorizia, non c’era bisogno che fosse istruita, neppure a livello elementare. Invece, la nascente industria nazionale (specie tessile e meccanica pesante) richiedeva operai capaci di alcune elementari operazioni intellettuali, quali leggere le istruzioni per fare funzionare un telaio meccanico e risolvere semplici guasti meccanici, inevitabili nel corso della produzione in serie; oppure contare i pezzi usciti da una macchina che lavora a catena, per controllare l’andamento della produzione. Significativo, al riguardo, che l’obiettivo assegnato alle scuole elementari consistesse in leggere, scrivere e fare di conto: tutte le semplici nozioni indispensabili per lavorare nei nascenti opifici industriali; in altri termini, un corso completo di formazione professionale per futuri operai della nascente industria nazionale. L’obiettivo dunque era quello di creare buoni lavoratori di domani.
Considerazioni architettoniche
Funzionale a questo obiettivo di creare buoni ed ubbidienti lavoratori, tutti dediti a lavorare per far guadagnare soldi al padrone era anche l’architettura scolastica.
A quale modello logistico-strutturale si ispirarono i moderni inventori delle “scuole obbligatorie”? Al modello delle cosiddette “comunità separate”: caserme, carceri ed ospedali. Ed infatti caserme, carceri, ospedali e scuole hanno la stessa struttura architettonica e le stesse regole fondamentali di funzionamento. Si tratta sempre di strutture di grandi dimensioni, formate da ampi stanzoni:
· dove le persone vengono ammucchiate a gruppi più o meno ampi sulla base di criteri totalmente spersonalizzati: nelle caserme il reggimento; nelle carceri il reato commesso; gli ammalati a seconda della malattia; gli scolari a seconda dell’anno di nascita;
· dove tutti portano gli stessi abiti: l’uniforme in caserma; la tuta a strisce in carcere; il camice bianco negli ospedali; il grembiule nelle scuole;
· dove tutti coloro che vi stanno sono costretti per legge con la forza a rimanervi: i soldati sotto pena di corte marziale per diserzione; i carcerati sotto pena di fucilazione per evasione; i malati sotto pena di bando dalla società per evitare che diffondano contagio; gli scolari sotto minaccia di trovarsi il carabiniere che li viene a sequestrare a casa per riportarli a scuola (quanti di noi hanno sentito raccontare questa storia, da bambini, quando non volevamo andare a scuola la mattina seguente!);
· dove tutti devono seguire le stesse regole e gli stessi orari: in tutto e per tutto, dall’entrata all’uscita, fino ai pasti ed alle necessità fisiologiche;
· dove tutti mangiano le stesse cose: la mensa è uno degli aspetti che accomuna tutte le “comunità separate”. Ci sono voluti i musulmani e la celiachia diffusa a livello di massa per consentire delle differenziazioni individuali nella refezione dei malcapitati che tutti i giorni devono pasteggiare nelle mense di ogni genere. E tanto il governo ci tiene alla nostra salute che adesso c’è pure il dietologo che studia un disgustoso menù “equilibrato”, studiato appositamente per evitare ai bambini di incorrere in quello che l’odierna società dell’immagine ostracizza e considera come il peggiore dei difetti: l’obesità, alla quale ogni male viene ricondotto. Ovviamente, il tutto non ha lo scopo di tutelare la salute di nostro figlio (della quale, ad ogni buon conto, al governo non importa proprio nulla), bensì quello di ridurre le spese del servizio sanitario nazionale, da molti mal sopportato come un relitto storico del deprecato ventennio fascista. Nessuno nota che quello stesso governo che impone alle scuole una dieta “sana ed equilibrata”, consente che bambini e ragazzi vengano bombardati da ore di pubblicità televisiva dove le grandi industrie alimentari nazionali e multinazionali pubblicizzano, con ampio successo in termini di vendite, delle porcherie di ogni genere, che sono l’esatto contrario di qualunque dieta “sana ed equilibrata”. A scuola si cerca di far risparmiare soldi alla sanità pubblica, ma a casa di ciascuno bisogna far fare affari d’oro alle industrie alimentari, visto che dietro di esse ci sono giri di miliardi di euro e davanti ad esse ci sono tanti politici a fare da “santi in paradiso”. Nessuno pensa che lo stesso Stato che, ad esempio, promuove le campagne antifumo, lucra cifre enormi sulla vendita delle sigarette, a causa del mai abolito monopolio di Stato sui tabacchi, e via discorrendo;
· dove nessuno ha una identità propria, confondendosi nella massa: i soldati sono chiamati per grado; i carcerati sono chiamati per numero; i malati sono indicati con il numero del letto sul quale vengono costretti a giacere; gli alunni sono indicati con un numero progressivo sul registro, tant’è che, per dare corso alla pratica vessatoria delle interrogazioni in stile giudiziario, spesso il sadico boia-maestro estrae a sorte un numero per indicare chi sarà il prossimo suppliziato da giustiziare in pubblica udienza dinanzi ai compagni astanti e sbeffeggianti ad ogni minimo errore, vero o presunto.
Le moderne fabbriche dove vengono stipati gli operai abbarbicati ai telai ed ai macchinari per la produzione in serie hanno lo stesso stile delle “comunità separate”: ambienti grandi e asettici, orari predefiniti e standardizzati, tute da lavoro uguali per tutti, ecc.; e per abituarsi a questo stile di vita completamente alienante, allora è necessario che si abituino fin da bambini, andando a scuola, dove apprenderanno i rudimenti che serviranno loro per lavorare nella moderna fabbrica organizzata in perfetto stile carcerario.
Non è un caso se in America spesso sono le imprese a fondare le università: secondo il perfetto stereotipo borghese, la cultura serve per fare soldi; non è altro che un bene da sfruttare per fini di guadagno, come una casa, un terreno o una partecipazione azionaria. E da questa idea venale ed utilitaristica nasce il mito borghese del “lavoro adeguato al titolo di studio”: se ho studiato per fare soldi, devo – e necessariamente devo! – fare solo il lavoro per cui ho studiato; lavoro dal quale devo – e necessariamente devo! – guadagnare ciò che ritengo giusto in relazione a quanti anni ho studiato (qualcuno dovrebbe spiegare loro che il salario è il prezzo del lavoro, il quale prezzo – come tutti i prezzi – è soggetto alla legge della domanda e dell’offerta, non a quella del “più anni ho studiato, più mi dovete pagare per il lavoro che faccio”).
Ebbene uno dei motivi per istruire i figli in casa è proprio questo: insegnare loro che la cultura serve a “far crescere l’uomo” (dal latino coleo che significa coltivare, da cui deriva il sostantivo “cultura”), nel suo intelletto e nella sua moralità, non nel suo portafogli. Carmina non dant panem, dice un vecchio adagio latino; presso i romani il precettore del giovane aristocratico, spesso di origine greca o egizia, era uno schiavo; nel medioevo agli ecclesiastici e ai nobili, che erano gli unici che studiavano, era interdetto il commercio, sprezzantemente definito “vile mercatura”: piccoli esempi per far risaltare la differenza tra la saggezza e la grandezza del passato e la miseria morale del presente. Un tempo la gente studiava per conoscere la verità, oggi studia per lavorare: si tratta di mondi lontani anni luce.
Del resto, l’origine “sporca” della scuola moderna riemerge con evidente chiarezza ancora oggi, dacché gli studenti di ogni ordine e grado vengono valutati secondo “debiti” e “crediti” formativi: il criterio del libero mercato, dove tutto – anche le persone, anche la cultura – viene valutato in termini monetari di dare e di avere.
Con tutto questo siamo ben lontani dal desiderio di elevare intellettualmente le masse, come scrivono ancor oggi i libri di testo delle scuole, riferendosi all’introduzione della scolarizzazione di massa.
Considerazioni pratiche
La scelta di fare scuola in casa è stata rafforzata anche dai penosi ed avvilenti risultati dell’istruzione pubblica, che sono sotto gli occhi di tutti. Bambini e ragazzi dai 6 ai 19 anni stanno a scuola tutti i giorni dalle 5 alle 8 ore ed anche di più, per cui dovrebbero, dalle scuole, uscire delle vere e proprie arche di scienza; invece, bambini e ragazzi sono e restano sempre più ignoranti.
Quello che nessuno ha il coraggio di dire è che la scuola non è più un servizio educativo per i bambini ed i ragazzi (ammesso che lo sia mai stato), ma al contrario è un servizio sociale di accudimento di infanti ed adolescenti, per genitori che, dovendo lavorare entrambi, non sanno dove mettere i loro figli. I genitori che chiedono tempi scolastici sempre più prolungati (tempo pieno, anticipi, posticipi, rientri pomeridiani, mense scolastiche, ecc.) non lo chiedono per dare ai propri figli un’istruzione migliore e più approfondita; lo fanno solo perché non sanno dove mettere i figli mentre sono al lavoro.
La scolarizzazione di massa, inutile ai fini culturali individuali, distruttiva a livello sociale e dannosa a livello familiare è la diretta conseguenza della forzata necessità delle madri andare a lavorare. Piaccia o no, questa è la realtà.
Molti genitori non immaginano neppure la vita dei loro figli senza la scuola ed anzi credono ciecamente alla scuola, considerandola lo strumento imprescindibile per dare ai figli l’istruzione necessaria ed addirittura l’educazione.
Come è facile vedere, nel metodo scolastico in sé ci sono due limiti di fondo. Il primo limite è che, rimanendo i bambini e ragazzi a scuola tutto il giorno, l’istruzione finisce di fatto con l’essere preponderante e con il prendere il posto anche dell’educazione. Il secondo limite della scuola consiste nella sproporzione del mezzo rispetto al fine: infatti, per istruire adeguatamente un bambino od un ragazzo non ci vogliono 5-8 ore sui banchi con l’aggiunta dei compiti a casa; al contrario, basterebbero 1-2 ore al giorno ben fatte, per garantire a chiunque, tramite un adeguato insegnamento, dei risultati culturali non buoni, ma addirittura eccellenti.
La scuola non è un male in sé e per sé considerata; lo diventa, però, quando assurge al rango di esperienza totalizzante nella vita dei bambini e degli adolescenti; lo diventa quando fornisce una istruzione omologata, omologante e spesso errata e quasi sempre insufficiente; lo diventa quando, per non scontentare nessuno, diventa un “contenitore asettico”, privo di identità, eticamente “neutro”, politicamente corretto ed indifferente alla religione.
Nella vita dei bambini e dei ragazzi di oggi tutto ruota attorno alla scuola: quando ci si imbatte in un bambino, la sola ed unica cosa che gli si chiede è “che classe fai?”; oppure “come vai a scuola?” … ed in base alla risposta viene formulata la valutazione generale sulla persona, per cui il bambino è “bravo” se va bene a scuola, cioè se ha dei voti alti. Che in ogni altro aspetto della vita sia poi un perfetto imbecille od una persona fondamentalmente cattiva, non importa nulla. A nessuno importa nulla di quello che il bambino conosce, sa ed ha appreso effettivamente, né di quello che sente e prova quando viene costretto a trascorrere le proprie giornate rinchiuso dentro ad una stanza con persone che potrebbero anche non essere di suo gusto (ed infatti quasi sempre è così, se è vero – come è vero – che in ogni classe si formano “gruppetti” di 4-5 amici, mentre il resto della classe viene cordialmente ignorato od odiato… anche se non lo si può dire, per ipocrita perbenismo). Vai bene a scuola? Tanto basta. Vai male a scuola? Ecco per te una bella patente da imbecille, che gli insegnanti risultano generalmente assai generosi nel concedere.
Sotto questo aspetto, oggi va male, un tempo andava forse peggio, quando delle mamme tanto patetiche quanto ignoranti si illudevano che la scuola fosse “buona” e la maestra “brava” quanto più bassi erano i voti dei discenti. Il degrado etico aumentava quanto più di saliva nella scala sociale della borghesia moderna: quanti genitori erano orgogliosi che il figlio frequentasse il prestigioso liceo classico cittadino, dove venivano promossi 4-5 studenti su di una classe di 20 alunni. Eppure la ragione, la logica ed il buon senso gridano il contrario. Se la stragrande maggioranza degli alunni di una classe non arriva alla sufficienza, ciò può significare due cose: o l’insegnante pretende cose sproporzionate a ciò che un alunno normodotato è in grado di dare; oppure è l’insegnante stesso ad essere incapace di valutare i propri allievi. Nel primo caso, le cose vanno male perché l’insegnante è umanamente un cretino; nel secondo vanno peggio perché non sa fare il proprio mestiere; in entrambi i casi, comunque, un insegnante così va licenziato in tronco.
Modalità didattiche
Questo è l’aspetto qualificante, quello più importante dell’istruzione domestica.
La scuola serve a fornire istruzione ai ragazzi, cioè un insegnamento su varie discipline, ciascuna dotata di contenuti propri. Ovviamente a scuola è necessario seguire un metodo di insegnamento standardizzato, uguale per tutti, omologato ed omologante. Inutile dire che siffatto metodo può essere adatto per alcuni degli allievi e magari può essere completamente inadeguato alla maggior parte degli studenti di una determinata classe.
Nell’insegnamento domestico questo problema non c’è, perché il metodo di insegnamento tiene naturalmente conto delle capacità e delle attitudini del figlio-bambino-allievo ed è proprio lui – e non la classe o la struttura scolastica – ad essere al centro dell’insegnamento.
È scontato che l’insegnamento con un rapporto individualizzato uno ad uno sia necessariamente molto più proficuo e fruttuoso che l’insegnamento collettivo.
Educare è un verbo che deriva dal latino “e-duco”, che letteralmente significa “condurre fuori”: educare vuol dire sapere far venire fuori dall’allievo quanto di buono ha già dentro di sé. Forse, educare più che una scienza è un’arte. Infatti, come insegnava il grande san Tommaso d’Aquino riflettendo su questa illuminante etimologia, la scuola veramente buona non è quella dove ci sono bravi maestri, ma semmai quella dove ci sono bravi allievi, dai quali si possa cavare fuori molto di buono.
Contenuto dell’insegnamento
L’odierna società occidentale è di fatto una società cosiddetta “pluralista”, dove con ciò non si intende soltanto affermare che in essa convivono persone che professano religioni e filosofie diverse, con altrettanto diverse idee e modi di concepire e di affrontare la vita: circostanza che, in sé e per sé, costituisce un mero dato di fatto.
Con “pluralismo” oggi si intende molto di più e molto di peggio, perché si sottintende il concetto che non esista una Verità unica e oggettiva (relativismo) e che se anche esistesse non sarebbe comunque accessibile alla ragione umana (agnosticismo). Tolta di mezzo la Verità, restano solo le opinioni, le quali – si sa – sono come la camicia che ciascuno di noi indossa la mattina: ciascuno ne ha una propria e non ce n’è praticamente nessuna che sia completamente uguale a quella dell’altro. In questo contesto, come evidenzia la sociologia contemporanea, si può perfino mettere in dubbio che quella in cui viviamo possa ancora essere definita come una “società”, perché questa presupporrebbe un minimo di sentire comune, di principi condivisi, che di fatto non esistono più da molto tempo, senza dubbio dal nefasto ’68 in poi e forse da molto prima.
In questo contesto letteralmente “a-sociale” (cioè di mancanza di una vera e propria “società”) la scuola è lo specchio di ciò che si trova al di fuori di essa. Pertanto oggi la scuola è diventata un contenitore asettico, eticamente neutro, politicamente corretto ed indifferentista sotto il profilo religioso. Tutte le idee, anche le più stravaganti, imbecilli o palesemente errate devono essere rispettate, fossero anche – come spesso in effetti sono – delle colossali idiozie, prive di qualunque fondamento e di ogni ragionevolezza. E questo, solo perché c’è qualcuno che le professa, basandosi sull’assunto errato che tutte le idee debbano essere rispettate: concetto ignobile, deplorevole, errato e di una malvagità perversa ed inaudita.
L’errata idea secondo cui ogni idea merita rispetto a priori, per sé stessa considerata, è una delle tante aberranti storture nate dalle deviazioni filosofiche cartesiane. Cartesio, proclamando il suo cogito ergo sum, ha affermato che l’uomo è (quindi esiste come uomo) solo se e nella misura in cui pensa. Con ciò, ha elevato il pensiero in quanto tale (cioè a prescindere dal suo contenuto) alla dignità di criterio dirimente per distingue ciò che è (l’essere) da ciò che non è (il non essere). Per Cartesio l’idea coincide quindi con l’essere stesso della persona che la esprime: pertanto il rispetto dell’idea viene a coincidere con il rispetto della persona stessa, la quale si identifica con il proprio pensiero.
Siamo agli antipodi rispetto alla filosofia aristotelico-tomista dell’essere, per cui è l’essere che fonda la persona ed esistendo a priori consente il pensiero, il quale è una delle facoltà dell’anima immortale creata da Dio ed infusa in ogni essere umano al momento del concepimento.
In questa visione classica dell’essere, ciò che merita rispetto è dunque la persona umana, non le idee che questa professa, che possono essere giuste o sbagliate e solo nel primo caso meritano rispetto. Anzi, la persona stessa può, per colpe gravissime, perdere quel diritto al rispetto che le competerebbe per natura.
Da principi errati come quello del rispetto selvaggio ed aprioristico per ogni idea nascono poi vicende penose e deplorevoli come quella del Crocifisso nelle aule di scuola, sulle quali non mi dilungo in questa sede.
Una educazione ed anche una istruzione sono possibili solo se fondate su contenuti chiari, precisi, ben determinati, che dicano con estrema lucidità e senza possibilità di compromessi o scorciatoie “questo è Vero e va creduto; questo è falso e va rigettato”. L’istruzione e l’educazione non possono in nessun modo essere fondate sulle opinioni e tanto meno sulla confusione intellettuale nascente dall’assurda pretesa di rispettare le opinioni – anche le più dementi – di chiunque. L’educazione e così pure l’istruzione non possono essere fondate sul dubbio, ma su certezze solide e granitiche come Gesù Cristo, sul quale si fondano la nostra cultura e la nostra civiltà.
Sotto questo profilo, l’istruzione familiare è quanto di meglio ci possa essere, perché sono i genitori a selezionare i contenuti specifici dell’insegnamento secondo l’impostazione che essi vogliono dare – ed hanno per diritto naturale il diritto di dare – ai propri figli.
Gli esempi possono essere tanti: io non insegnerò mai a mio figlio che l’uomo deriva dalla scimmia, semplicemente perché non è vero. Quando Darwin propose questa “teoria” (il nome è indicativo), non conosceva né la biologia molecolare né la catena del dna, per cui l’uomo e la scimmia hanno un diverso numero di cromosomi, cosicché non si potrebbero fra loro accoppiare e riprodurre: e questo dimostra palesemente e con prove scientifico-sperimentali come tutto l’impianto evoluzionista sia niente meno che una immane e colossale idiozia inventata ad arte in ambiente massonico-protestante per tentare – senza riuscirvi – di scardinare il dogma cattolico creazionista. Le pubblicazioni scientifiche che dimostrano tutto questo sono numerose, per cui via via che i figli cresceranno ed affronteranno studi sempre più approfonditi, sarà possibile fornire loro il necessario supporto scientifico.
Altro esempio: io non insegnerò mai ai miei figli che per secoli i pretacci cattivi mandavano sul rogo la gente buona che voleva pensare liberamente solo perché rifiutava di essere cattolica. Non lo farò perché storicamente falso. Non sto dicendo che sia una visione imprecisa o faziosa, sto dicendo di più: tutto quello che nelle scuole viene scritto sulla “Inquisizione” è totalmente falso, errato ed inventato di sana pianta. Oggi sono disponibili gli studi di storici autorevolissimi, spesso non cattolici, che dimostrano tale falsità, per cui i miei figli non avranno difficoltà ad avere un supporto storiografico a quanto loro insegnato.
Proseguendo: io non insegnerò mai ai miei figli che la rivoluzione francese sia stata qualcosa di buono; al contrario essa rappresenta il punto peggiore, più ignobile e più basso della storia dell’umanità, la cui diretta conseguenza, sia sul piano filosofico che operativo sono state le catastrofi dell’era contemporanea: il comunismo ed i nazional-socialismo in primis.
Tutto questo, nella scuola – specie se pubblica, ma quasi sempre anche in quella cattolica – non è possibile farlo. Nella scuola pubblica lo stereotipo classico dell’insegnante è quello di un vetero-comunista che non si è ancora reso conto che il muro di Berlino – e con esso l’ideologia che lo aveva eretto – è crollato per sempre. Nella scuola privata cattolica lo stereotipo dell’insegnante è quello di una ragazzina inesperta alle prime armi, che ha trovato lavoro in parrocchia ed attende con ansia di vincere un concorso per entrare nella scuola pubblica, onde fruire di maggiori tutele, di maggiore stabilità occupazionale, di un maggiore stipendio … il tutto a fronte di un minore carico di lavoro. A questo si aggiunge il desiderio delle scuole private cattoliche di non essere ghettizzate rispetto a quelle statali, per cui finiscono quasi sempre con l’adottare – senza la minima selezione critica dei contenuti – gli stessi libri testo in adozione presso la scuola statale. Il risultato è un insegnamento del tutto secolarizzato, quando non addirittura anticlericale, del tutto omologo a quello della scuola pubblica.
Questi sono i motivi principali per cui farò di tutto per evitare che i mie figli vadano a scuola.

1 commento:

  1. Il post contiene spunti interessanti. Mi sta a cuore quello dell'orario: mettere un bambino di fronte a otto ore di impegno, nonn sempre costante, spesso alleggerito, va bene, ma otto ore, pare eccessivo. Io ho frequentato la vecchia scuola elementare con il tempo normaqle di quattro ore e mi sembrava che fosse sufficiente. E' delicata anche la questione delle mense e quello della preparazione degli insegnanti.

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