mercoledì 19 luglio 2017

Margherita inventa una leggenda: Le Grotte di Frasassi

Come vi accennavo, durante le nostre vacanze nelle Marche Margherita è stata come folgorata dalle Grotte di Frasassi: la loro maestosità e particolarità l'hanno immediatamente conquistata, tanto che già un paio d'ore dopo la visita, ancora nella nostra casetta in affitto, si è buttata a capofitto nell'inventare e scrivere questa lunga leggenda, partendo da elementi realmente ammirati all'interno delle varie sale visitate ed arricchendo poi con tanta fantasia e immaginazione.



05 luglio 2017, Marcelli di Numana
Leggenda
LE GROTTE DI FRASASSI
C’era una volta, agli inizi del mondo, un tempo in cui le fiabe esistevano.
All’epoca, tutto era diverso da ora.
Non c’erano case, né strade, né negozi, né nulla di quello che conosciamo oggi.
La natura prevaleva su ogni altra cosa.
C’erano fiumi incontaminati, foreste vergini, terreni da dissodare, boschi, giungle, deserti, pianure, colline, montagne, oceani, grotte.
C’era una volta un tempo in cui esisteva la magia.
Le foreste risonavano del tintinnio d’argento delle ali delle fate, nei fiumi e nei mari nuotavano le sirene, nei laghi danzavano le ninfe, nelle pianure e nelle brughiere desolate saltellavano folletti ed elfi maligni, nelle viscere della terra gli gnomi praticavano le mistica arte di forgiare il ferro, che poi avrebbero conferito all’Uomo quando egli fosse venuto secoli e secoli dopo, nel ventre dei vulcani e sui cocuzzoli delle montagne maghe e stregoni esercitavano i propri poteri.
Ogni categoria di creature magiche viveva in un proprio ambiente.
Una strega non potrebbe vivere sottoterra, una sirena fuori dalla sua acqua, uno gnomo al di fuori delle sue buie officine sotterranee.
Anche per le fate valeva la stessa cosa.
Vivevano principalmente in piccoli boschi.
Eppure, come in ogni gruppo o etnia, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, c’era sempre un gruppo di emarginati, un insieme di creature che vivevano a parte, lontani dagli altri, e si sviluppavano in modo diverso, creando arti magiche e incantesimi incredibili, mistici e strani, la maggior parte dei quali non sono stati tramandati.
E’ stato così per gli gnomi, che chiudendosi in gallerie sotterranee hanno creato l’arte di forgiare il metallo, o per le sirene, che vivendo nei recessi dell’oceano, da sole, per poter avere un bagliore di luce sul fondale disabitato avevano creato le perle.
Così era la legge della natura.
Ecco, proprio per questo, anche nella popolazione fatata c’era un piccolo gruppo di fate che fin dalle origini del mondo e della creazione si erano separate dai loro simili e si erano isolate.
Ciò succedeva anche in altre popolazioni dei boschi, come gli elfi buoni della foresta, e sentendosi ambedue i gruppi di fate ed elfi diversi dai loro simili, avevano deciso con il T.P.U.F.E. (Trattato di Pace e Unione di Fate ed Elfi) di formare un popolo a parte lontano dagli occhi di qualsiasi altra creatura.
Sia fate che elfi non possono vivere troppo lontano dai loro boschi, così sono fatti.
Volevano però anche allontanarsi il più possibile da altre fate ed altri elfi.
Cosa fare, dunque?
La soluzione l’avevano trovata in una grotta sotterranea, vasta e grandissima, molto sotto il livello del mare, isolata e segreta a tutti, ma vicina alle amate foreste.
Si trovava nel ventre freddo di un monte simile a carta stropicciata, con ripidi strapiombi velati di vegetazione e ampie zone boscose, con fitte foreste di pini scuri dal tronco d’argento e oscuri recessi.
Il monte si trovava poco distante da un grande fiume, che si insinuava nelle profondità della terra fino a scorrere al di sotto della grotta stessa.
Con quello che veniva ricordato come Pellegrinaggio, fate ed elfi si erano rifugiati lì, e avevano solennemente giurato di non uscire mai più.
La grotta era quindi stata sigillata con un incantesimo di protezione e la vita all’interno della grande grotta si era sviluppata.
Con gli anni, il senso di appartenenza a un popolo a parte e l’armonia fra le due categorie erano cresciuti.
Fate ed elfi erano creature naturalmente meticolose ed ordinate, lievemente folli ed enormemente fantasiose, per cui la loro grotta segreta risentiva immensamente di queste caratteristiche.
La grotta aveva un’architettura del tutto particolare.
Essendo creature emulatrici e generose, in grado di assimilare e comprendere il buono e il bello di altre culture e di altre razze, avevano imparato dalle api l’antica arte della cera, dalle Sirene l’arte del marmo e dalle Maghe buone del deserto artico l’arte di scolpire il ghiaccio e modellarlo a piacimento.
La grotta si presentava come un susseguirsi di stanze a volta, con il soffitto a cupola, immense e spaziose.
Le pareti erano state ricoperte da spessi strati di cera, come spalmati sulle vaste pareti in grandi onde.
Le case e i palazzi erano indicibilmente graziosi: erano torri di cera e ghiaccio tutte trine, merletti, capitelli scolpiti, giochi di archi, finestre, volte, cupole, entrate e uscite, piccole bifore e trifore, porte arcuate, colonnine, passaggi, portici arrotolati in spire intorno alle torrette, scale che si avvinghiavano in deliziose chiocciole.
Tutto era brioso, allegro ed efficace.
Se dovessimo paragonare quelle case a qualcosa di umano o contemporaneo, sarebbero sembrate tante Torri di Pisa.
Erano alte come e anche di più di un condominio dei giorni nostri, fra i diciotto e i venti metri.
Qui vivevano tutte le fate e gli elfi, in appartamenti ricchi di finestre e luce.
I pavimenti della grotta erano di marmo.
Appesi al soffitto pendevano drappi e tende candidi, per terra crescevano ciuffi d’erba bianca come fiori brinati, soffice come la neve fresca grazie agli steli ricoperti di cera tiepida.
Dalle pareti della grotta, attingendo dalla fonte che scorreva sotto i loro piedi nelle profondità della terra, saltellavano cascatelle che balzavano in tuffi qua e là allegramente, sciabordando e riflettendo il candore della cera e del marmo che le circondava, così da sembrare spruzzi di latte.
Al grande soffitto a volta erano appesi come dei ghiaccioli che grazie a potenti incantesimi delle fate illuminavano la grotta intera: trovandosi sottoterra, infatti, la luce del sole non penetrava in alcun punto e se non fosse stato per quella luce magica la caverna sarebbe stata immersa nel buio.
Il soffitto era sostenuto da colonne di  cera rafforzate con scanalature di marmo perlaceo, che dal pavimento salivano alte, sottili, arzigogolate e  slanciate fino al soffitto a volta.
Alcune di esse erano scolpite, come una colonna modellata in modo che sembrasse una fata con il braccio alzato che reggeva una fiaccola, simbolo dei primi elfi e delle prime fate che si erano separati per sempre dai loro popoli in nome della libertà.
Oppure un’altra colonna, molto massiccia, a celebrare il Vecchio Saggio Elfo, l’anziano elfo centenario che aveva guidato il popolo di elfi e fate attraverso la Foresta degli Ulivi d’Argento fino alla grotta segreta, rappresentato fedelmente nella colonna con tanto di lunga barba cespugliosa e cappuccio a punta.
Gli elfi veneravano il Suono, una credenza a cui si erano convertite anche le fate venendo a contatto con i Suonatori (così erano detti gli elfi praticanti).
Avevano grandi templi di ghiaccio, formati come da tanti ghiaccioli di ghiaccio tintinnanti di diverse lunghezze, dimensioni e diametro, pendenti direttamente dal soffitto.
Gli elfi e le fate si radunavano lì dentro, fra i ghiaccioli che sembravano come degli acchiappasogni enormi, e gli elfi scuotevano i ghiaccioli producendo suoni tintinnanti, mentre le fate scuotevano le ali a formare il suono di mille campanellini d’oro.
Di fondamentale importanza erano gli alveari delle api che producevano la cera indispensabile per la sopravvivenza della vita nella grotta.
All’epoca gli alveari erano molto diversi da quelli di oggi, simili a piccole città in miniatura.
Le pareti della grotta talvolta erano sporgenti e ricoperte d’erba semighiacciata, e sugli alti pendii (più di 200 metri) i pastori elfi facevano pascolare i loro animali.
Nella grotta si trovavano diversi animali: una grande orsa bianca addomesticata viveva stabilmente nella grotta, poiché era animale sacro delle fate, e un dromedario e un cammello vivevano là, dono di maghe del deserto.
Essendo una città esclusivamente di cera, ghiaccio e marmo, poteva esistere solo grazie a una temperatura costantemente molto bassa: la grotta era fredda e abbastanza umida e grazie a questo prosperava.
Ma come tutte le popolazioni, elfi e fate non sarebbero sopravissuti senza un capo che li guidasse.
La Fata Imperatrice era il punto di riferimento di tutti i suoi sudditi.
Era una Sovrana pacata e premurosa, dolce e benevola, una presenza quasi impercettibile, sottile come vetro, un’ombra di luce persa nel candore abbagliante della grotta, ma indispensabile alla sopravvivenza di tutti.
Senza di lei, nulla sarebbe vissuto.
Viveva nel grande Castello Incantato degli Elfi e delle Fate posto al centro del regno della grotta, ed era un edificio principalmente di cera suntuoso ed immenso.
Fra i giochi di archi e bifore, scale a chiocciola e porte, colonnine e mosaici, tutto risplendeva.
Quasi nessuno aveva visto la Fata Imperatrice, ma chi l’aveva vista non aveva trovato parole per descrivere la sua bellezza, narrando solo che era una fata grandissima e fluttuante, di una bellezza che splendeva in modo inenarrabile, trasparente come l’acqua, col sorriso più dolce che fosse possibile immaginare, una veste di luce pura che si gonfiava come nel vento e fluttuava come le onde, i capelli di fili di luna, occhi di stelle e ali grandi, in grado di sostenere il regno sulle loro punte delicatamente ondeggianti.
Questo era quello che si raccontava della Fata Imperatrice.
Emergeva come una figura incantata, fiabesca, sfuggente, evanescente, un’ombra di luce impalpabile e quasi intoccabile, aleggiante a mezz’aria come le farfalle.
Si diceva che fosse nata col mondo per guidare il suo popolo e che fosse immortale.
La vita nella grotta scorreva serena e segreta al mondo esterno, brulicante di vita e attività.
Fra le sue pareti bianchissime e le torri  fate ed elfi vivevano in pace e tranquillità.
C’era molto fermento.
Le fate erano intente a raccogliere il miele di cui si nutrivano, a cogliere gigli, narcisi e margherite per farne mazzi, a tessere abiti per la comunità, a sferruzzare, ricamare, tagliare, a prelevare gentilmente la cera dagli alveari e portarla nei Grandi Magazzini di Cera in cui essa era conservata per poi servire come materiale base per la vita nella grotta, a occuparsi delle fate bambine oppure, compito di grande responsabilità, a sbattere le ali velocemente così da raffreddare ulteriormente l’aria in modo che la cera e il ghiaccio non si sciogliessero mai.
Era una tecnica che usavano le api, e le fate l’avevano appresa da loro.
Spesso le fate cantavano in piccoli gruppi o ballavano danze ancestrali, nate col mondo o addirittura prima.
Così, fra mille occupazioni, le fate erano costrette a svolazzare graziosamente di qua e di là freneticamente, e si divertivano un mondo.
Le fate della grotta erano creature deliziose: avevano la testa grande in confronto al piccolo corpo; lunghi, lucidi, finissimi e colorati capelli lisci che ondeggiavano mentre volavano, grandi occhi allungati, un sorriso dolce, gli arti sottili e allungati, mani e piedi piccolissimi, il busto sottile e stretto, la pelle quasi trasparente, le orecchie a punta e vestivano con abitini candidi.
Sulla schiena fluttuavano due ali luccicanti, morbide, setose e trasparenti, a forma di farfalla o lievemente smangiate sui bordi.
In mano recavano una piccola bacchetta sottile che mandava scintille bianco neve.
Emanavano una luce bianca e purissima che abbagliava e le avvolgeva e quando volavano una scia di luce e piccole scintille argentee svaniva piano dietro di loro.
Sbattevano le ali freneticamente, quando sfarfallavano piano muovevano appena le gambe e quando vedevano qualcosa di nuovo si fermavano a mezza’aria sorridevano appena, inclinavano il capo da un lato, così che le lunghe ciocche lucenti coprissero appena il volto e fissavano l’oggetto con curiosità con i loro grandi occhi allungati e scintillanti.
In generale non erano più grandi della mano di un adulto.
Avevano un carattere socievole, vivace, fantasioso, timido e timoroso, brioso e ridevano spesso con la loro risata argentina.
Non avevano nessun peso, non proiettavano alcuna ombra e si nutrivano solo di miele.
Gli elfi avevano più o meno le loro stesse misure.
Avevano la pelle verde chiaro, il naso lungo, gli occhi neri e i capelli corti e lisci color muschio.
Saltellavano qua e là, erano esili, avevano grandi piedi e le orecchie a punta.
Indossavano casacche verde muschio o verde pisello chiuse da cinture, pantaloni dello stesso colore e un lungo cappuccio a punta con sulla cima un campanellino d’argento.
Avevano un carattere furbo, monello, birichino, alquanto dispettoso ma erano di buon cuore, erano determinati e grandi lavoratori.
Amavano suonare sottili flauti d’oro al ritmo dei quali ballavano le fate.
Non stavano mai fermi.
Le loro principali occupazioni erano far pascolare gli animali, costruire le case e le torri, modellare la cera e scolpire il marmo e il ghiaccio.
Durante il giorno nella grotta le fate sfrecciavano di qua e di là affaccendandosi e gli elfi costruivano.
L’aria era piena del tintinnio delle ali delle fate e di quello dei campanellini degli elfi.
Insomma, laggiù tutto era perfettamente organizzato.
Eppure, tutto era destinato a finire per sempre.
Fuori dalla grotta, infatti, vivevano altri gruppi di fate.
Non tutte erano buone.
Nella foresta viveva un gruppo di fate crudeli, le uniche che ancora ricordassero l’esistenza delle fate della grotta e della loro antichissima separazione dalle altre fate per vivere isolate.
A capo di queste fate crudeli c’era la Fata Nera, invidiosa da sempre della Fata Imperatrice.
La Fata Nera non riusciva a sopportare che la grotta fosse protetta da un incantesimo che le proibiva di entrarci e rovinare la perfezione della grotta, per cui l’odio aveva indurito e reso insensibile come se fosse di pietra riarsa il cuore già inasprito della vecchia maga.
L’invidia è il peggior sentimento che possa esistere: mette le persone e le creature le une contro le altre, le spinge a desiderare il male del prossimo, e si diffonde come l’edera che, sotto un’apparenza innocua e rigogliosa, nasconde la voracità dell’assassino, e uccide l’albero da frutto direttamente da dentro, succhiandone la linfa vitale e causandone la morte.
Così, non sopportando che le fosse vietato fare qualcosa, con l’anima ridotta in cenere e il cuore in schegge di pietra frantumata, la vecchia Fata Nera decise a quel punto di mettere in atto la propria vendetta.
Sapeva che la grotta era basata sul freddo, senza il quale le malleabile cera tiepida e opaca e il ghiaccio freddo e cristallizzato si sarebbero sciolti.
Troppo semplice causare la rovina di coloro che odiava.
La Fata Nera si alzò in volo.
Ormai era troppo tardi: la sorte del regno nella grandiosa grotta era segnato.
La maga alzò le mani con i palmi verso le nubi e gridò una formula magica.
Nubi grigie e tumide si ammassarono sopra di lei, ci fu una raffica di vento gelido e un soffio di vento caldo, poi più nulla.
Le nubi ripresero la sofficità dei fiori di cotone e il colore del latte fresco, si diradarono e ripresero a rincorrersi come nulla fosse.
Il vento cessò.
La Fata Nera si adagiò al suolo con un ghigno soddisfatto che non celava per nulla l’amarezza dell’odio che la corrodeva e le scorreva nelle vene, visto che le fate non hanno sangue.
Intanto, nella grotta sottoterra, nella ampie stanze affollate di torri di cera e pareti rivestite interamente dello stesso materiale, fate e folletti erano ignari di tutto quello che succedeva fuori, dell’odio, dell’amarezza, dell’invidia e la gelosia.
 Quella notte, mentre la luna risplendeva sopra il monte stropicciato, nessuno sapeva della terribile maledizione che era stata lanciata e che li avrebbe uccisi tutti.
Qualche giorno dopo cominciarono ad accadere fatti strani.
La cera non si raffreddava più.
Nella grotta la temperatura cominciò ad alzarsi sempre di più, e al posto del freddo rassicurante si diffuse uno strano tepore.
La cera diventava morbida, non manteneva bene le forme che le venivano date.
Le pareti coperte di cera si intiepidirono, e nemmeno cento fate che sbattessero forte le loro ali fino a farsi male riuscirono a raffreddarla.
Il ghiaccio fondeva appena, gocciolava dal soffitto.
Non si sapeva cosa fare.
Nei giorni che vennero i danni divennero più gravi.
Le case minacciavano di crollare: la cera fondeva, colava, si deformava, il ghiaccio si liquefaceva.
Scomparvero finestre, porte, archi, scale: interi edifici vennero dilaniati, completamente sfigurati.
Le piccole fate e gli elfi venivano cacciati dalle loro case e mandati a vivere provvisoriamente in altre torri.
Spesso gli edifici crollavano direttamente: a quel punto grossi mozziconi di cera precipitavano sul pavimento e si ammassavano come macerie, memorie di tempi migliori ormai distrutti.
Oltre alle case, molti Templi del Suono vennero chiusi perché i ghiaccioli cadevano, e l’illuminazione si faceva sempre più debole a causa delle fate che non avevano più la forza di mantenere costante l’incantesimo.
Le pendici di cera dei monti si ammorbidivano e vi si sprofondava, l’erba si sbrinava, non c’era più da mangiare per gli animali.
Le api producevano ancora cera e miele, ma gli alveari si disfacevano e molte scappavano a nugoli.
A fate ed elfi mancava il cibo: il miele di cui si nutrivano scarseggiava, il poco che c’era veniva razionato rigorosamente.
Ma con la quantità di miele che potrebbe stare in un nostro cucchiaino da tè nemmeno creaturine esili e minute come elfi e fate potevano sopravvivere a lungo.
Le fate divennero sempre più esili, la loro pelle divenne trasparente come l’acqua, le loro ali non tintinnavano né luccicavano più e non sorridevano mai.
Mentre le fate tentavano in ogni modo di raffreddare la temperatura nella grotta con le loro ali sfinite, gli elfi tentavano di ricostruire le torri che crollavano.
Ma era tutto inutile.
Le colonne che sostenevano il soffitto delle varie stanze minacciavano di crollare e si stavano sciogliendo, le volte perdevano forma e gocciolavano per terra, anche il Castello Incantato degli Elfi e delle Fate era in pericolo: i bellissimi mosaici di marmo venivano cancellati per sempre da colate di cera che li offuscavano, le statue tornavano molli e cedevoli, le colonne si spezzavano di colpo come fiammiferi, intere porzioni venivano chiuse perché inagibili.
La cera che fondeva sigillava porte e finestre, nascondeva uscite e scale, archi e qualsiasi altra cosa trovasse.
Tutto andava disfacendosi.
Si aprirono grandi brecce nella cera di soffitti e muri, le case crollavano, il ghiaccio si frantumava, il marmo si crepava, addirittura dal pavimento sgorgò l’acqua del fiume che scorreva metri e metri sotto la grotta, inondando alcune zone.
Nessuno rideva più: nemmeno le fate che lo facevano sempre.
Neppure le fate bambine ridevano e si rincorrevano giocosamente, gli elfi bambini anche.
Le fate non svolazzavano che fiaccamente, piano, esili e trasparenti, ombre della loro passata gioia e vivacità, e gli elfi non saltellavano più gioiosamente: camminavano lentamente, e non suonavano più i loro flauti dorati.
La paura permeava l’aria al posto del trillo gentile di ali e campanellini.
La rovina era completa.
Al di fuori, nella foresta, la Fata Nera ne gioiva.
Una notte in cui un disco di luna brillava nel cielo privo di stelle, mentre fate ed elfi dormivano, si vide baluginare nella grotta una luce bianca e intensa.
Era come una grande fata fatta solo di luce: era la Fata Imperatrice.
Volando sostenuta dalle sue grandi ali, passò di stanza in stanza di quello che era stato il suo amato regno.
Vide tutto.
Tutta la rovina.
Tutta la desolazione.
Tutta la fame.
Tutta la paura.
La gioia andata via forse per sempre.
L’armonia spezzata.
L’amore sciolto come quella cera.
Anche se non si faceva vedere praticamente mai, la Fata Imperatrice amava il suo popolo più di qualsiasi altra cosa.
E quella notte, capì che ormai tutto era impossibile.
Era la fata più potente tra le fate, ma l’incantesimo lanciato dalla Fata Nera era troppo potente anche per lei: per quanto fosse difficile crederlo, la Magia Nera era più forte della Magia Bianca.
Una cosa, però, la Fata Imperatrice poteva farla.
Poteva fermare il tempo.
Poteva far cadere tutto il regno nascosto nella grotta in un sonno che sarebbe durato in eterno.
Era l’unica via d salvezza, perché non tutto fosse perduto e dimenticato.
La Fata Imperatrice guardò tutto il suo regno addormentato nel plenilunio.
Guardò le piccole fate raggomitolate per terra, perché ormai non c’erano più case abitabili, le ali accartocciate, le gambe piegate strette al petto, il capo dai lunghi capelli poggiato sulle ginocchia, gli occhi chiusi, la luce soffusa che emanavano ridotta al riverbero di un candela che si stava spegnendo, le piccole mani come a proteggersi.
Gli elfi dormivano accanto a loro, nel buio appena rischiarato dalle poche luci ancora tenute in vita dalla magia, la pelle verde chiaro, i capelli setosi e corti, il cappuccio piegato da un lato, le orecchie appuntite che spuntavano dall’orlo, rannicchiati come le fate per terra.
La Fata Imperatrice li guardò tutti ad uno ad uno, lentamente, come scivolando a mezz’aria, triste.
Accarezzò la pelliccia soffice e folta della mansueta orsa bianca, ancora incatenata nelle sue briglie d’oro nella stanza accanto: il fedele animale non si era mosso, era rimasto lì, immobile, ad attendere.
La Fata Imperatrice le si avvicinò a sciolse il collare che la legava: ormai, le catene non avevano più un senso.
La buona orsa le poggiò per un po’ il muso sul grembo, dolcemente, poi tornò immobile, attendendo la fine.
L’Imperatrice accarezzò il cammello e il dromedario addormentati e passò oltre.
Sfarfallò lievemente e gravemente per le stanze della grotta ormai desolate, i palazzi in disfacimento, irriconoscibili, quasi completamente sciolti, le parete che grondavano cera che colava lentamente, il soffitto che gocciolava.
 Tutto era immobile, il solo suono era quello sciabordante delle cascate che rimbalzavano sulle pareti.
Tornando nella sala dove riposavano ignare tutte le fate e tutti gli elfi, la Fata imperatrice chiuse gli occhi ai bambini, accarezzò le loro minuscole mani e diede la buonanotte dolcemente a tutti loro, piccoli e indifesi, che avrebbero dormito per il resto dell’infinito tempo del mondo.
Poi spiegò le ali delle fate dolcemente dormienti, lisciandole con la punta delle dita, e mise in mano ad ognuna la propria bacchetta magica.
Stirò il cappuccio di ogni elfo e mise in mano ad ognuno il proprio flauto d’oro.
Poi, agitando la propria lunga becchetta scintillante, fece cadere l’incantesimo.
Contemporaneamente, una lacrima di luce le scivolò sulla guancia.
La Fata Imperatrice guardò il tempo nel suo regno fermarsi per sempre.
Le cascatelle e i ruscelli si congelarono piano, smettendo di sciabordare.
Ogni rumore cessò.
Le luci si spensero.
Ogni lieve respiro o sospiro smise.
L’orsa rimase immobile nella sua posizione.
Un folletto rimase immobile: si era addormentato in piedi su un monte, con una lucerna in mano e una pecorella dietro di lui, che stava facendo pascolare.
L’aria si raffreddò immediatamente.
L’umidità prese il sopravvento.
Il soffitto smise di gocciolare, le gocce rimasero appuntite, immobili appese ad esso.
Le case non si scioglievano più.
Il sottile brusio delle api non continuò.
Tutto rimase congelato come nel momento in cui la Fata Imperatrice aveva lanciato l’incantesimo per salvare il suo popolo, addormentandolo per l’eternità.
Poi, con quella lacrima che ancora la brillava sul viso, l’Imperatrice se ne andò, senza far rumore.
Sono passati milioni di anni da quella notte di luna piena in cui il tempo si era fermato.
Nelle Grotte di Frasassi tutto è ancora come allora.
Per milioni e milioni di anni è rimasta nascosta e segreta a tutti, ed è stata scoperta casualmente solo nel settembre del 1971.
Ad oggi è stata visitata da oltre 12 milioni di persone provenienti da tutte le zone del pianeta, e tutte sono state affascinate dall’incredibile meraviglia delle Grotte.
Eppure, quello che vediamo oggi non è che solo l’ombra di ciò che era, lo scheletro di un regno che è stato incantevole, incantato e fatato.
La stalagmiti e le stalattiti altro non sono che gli antichissimi edifici in cui vivevano in armonia fate ed elfi.
Dove ora c’è odore di vuoto, freddo e umidità, una volta c’era un profumo soave.
Il buio era rischiarato da luci magiche e dalla scia delle ali delle fate.
L’aria ora immobile e fredda era piena del trillo della vita.
Ad oggi il corpicini dormienti di fate ed elfi sono svaniti, come polvere nel vento, ma c’è qualcuno che dice di vedere ancora oggi aggirarsi volando fra i resti del suo antico regno perduto lo spirito della Fata Imperatrice, disperata per la perdita dei suoi sudditi, con quell’unica lacrima scintillante sul viso.
Ma se ci si concentra, ancora oggi si può sentire l’antico tintinnio dei campanellini elfici e le risate argentine delle piccole fate.
Come se il tempo non si fosse fermato.


1 commento:

  1. è troppo bello. Soprattutto cattura l'attenzione,ti tiene li fino alla fine. Se non sapessi l'età stenterei a crederci. Dono assolutamente da coltivare.

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